We are family

Qualche volta succede a chi legge, con piglio smaliziato, ipercritico: questa specie di gigolò da libreria, abituato ad assaggiare troppo di tutto è pur sempre in attesa, se mi si passa il paragone poco letterario, di incontrare qualcuno di cui innamorarsi per davvero.
Ecco: debbo confessare che, dopo aver letto le prime pagine di we are Family dello scrittore romano Fabio Bartolomei, mi aveva lasciato un abbastanza perplesso il protagonista: un bimbo, superintelligente, incredibile, che già a quattro anni non solo ragiona, ma addirittura pare incarnare l’esperienza critica e le modalità espressive di un adulto, pur temperate da espressioni infantili.
Invece la tenerezza di questa storia incanta, progressivamente. Ti conduce per mano e sposta la nostra presunta razionale saggezza in un territorio azzurro dove si perdono i confini e le regole di ciò che è omologato come vero e normale, razionale, per farci entrare in un regno di libertà assolutamente credibile. Di gradevole adulta fanciullezza. Del resto questa è la prateria sconfinata della letteratura: così preziosa.

La storia che si racconta in We are Family, ricca di annotazioni sorprendenti e che sfociano talvolta in una lirica accennata, moderna (alla Safran Foer di Molto forte, incredibilmente vicino, per capirci) è proprio questa: una sorprendente metafora.
Al Santamaria, il bimbo prodigio (costretto a fingersi normale per non essere emarginato), vive in una famiglia che vista da fuori non potrebbe essere più scassata: una sorella sbadatissima che, tra l’altro, lascia morire irrimediabilmente gli animaletti che vorrebbe accudire; un padre autista d’autobus, buffo e impresentabile, che vive nel mito colorato di Elvis Presley e come lui si pettina, si (tra)veste e canta, una madre indaffarata a far quadrare il bilancio impossibile nella precarietà dignitosa.

I Santamaria appaiono felici nel proprio guscio modesto, anche se sono sempre alla ricerca di una casa decente e propria dove trasferirsi. Quasi un miraggio. Irrimediabilmente delusi dalle insufficienti risorse, non risultano mai maldisposti o, peggio, sconfitti.
Al è convinto di avere una missione da compiere: salvare la propria famiglia e salvare il mondo (o viceversa). Anche crescendo mette a disposizione la consapevole genialità per questi fini supremi: di cuore rimane un eterno bambino e questa miscela di ingenuità e intelligenza porta ad esiti stupefacenti.

L’autore escogita piacevoli invenzioni che innalzano la narrazione a qualche metro da terra, dove potrebbe vivere Peter Pan, pur descrivendo una vicenda italianissima, dai contorni geografici individuabili. Il mondo così liquido della famiglia Santamaria, dove neppure l’instabilità della casetta è motivo di preoccupazione, infine appare così morbido e avvolgente.
Annotazioni fulminee arricchiscono il romanzo della piacevolezza di alcune intuizioni filosofiche, offerte senza spocchia in una lingua diretta e sentimentale. Singolare, ad esempio, la definizione spaziale di amore, molto centrata. Ci si ritrova spiazzati da questa struggente storia di affetti sinceri, mai appesantiti, in cui la famiglia rappresenta la roccaforte esile, eppure resistente. Quella dei Santamaria è una bella famiglia da salvare, indipendentemente da tutte le contraddizioni, e con proverbiale spensieratezza, anche in presenza di un destino gramo: ogni componente ha nel proprio dna l’innato compito di rendere i propri familiari più sereni, al limite della pietà o della bugia affettuosa.

Il romanzo è scritto molto bene, divorabile in una notte di lettura appassionante e scorrevole, la trama è assolutamente seducente. Malgrado le premesse, paradossalmente convince la coerenza: anche crescendo Al rimane un protagonista attendibile come e più di quando era veramente piccolo. La metafora sviluppa la sua efficacia in un modo garbato. Per mio gusto, forse il richiamo (ad inizio dei capitoli) per contestualizzare quanto il mondo esterno al “principato dei Santamaria” sia violento e infido, poteva risolversi con minor insistenza di attualità, ma qui entriamo in un ambito personale e dunque opinabile.

Fabio Bartolomei ha pubblicato altri due libri di successo per l’editore E/O: Giulia 1300 e altri miracoli, e La banda degli invisibili. Si tratta sempre di narrazioni ancorate alla realtà italiana, in cui si riconoscono invariabilmente alcune problematiche, nervi scoperti della nostra realtà sociale, che con uno scarto letterario assurgono al rango di prototipi alternativi, o almeno di suggerimenti, se non proprio anche di uscite di sicurezza a difenderci dal malessere coatto della quotidianità, specialmente degli umili.

Ritengo we are family il suo testo più concluso, così piacevolmente meticoloso. Molto riuscita la descrizione nell’incedere della diversa maturità, anno dopo anno, che si percepisce tra Al e sua sorella Vittoria: Al resta l’affascinante sognatore che cambierebbe il mondo ( in qualche modo è figlio di suo padre), Vittoria, la sorella sbadata, invece si rivela quasi materna e impugna la famiglia (quel che ne è rimasto) con generosità e squisita delicatezza tutta femminile, al momento giusto.
Apprezzabile la capacità di osservazione dei dettagli che potrebbero apparire minimali e su cui invece fonda la propria credibilità un romanzo che altrimenti, per sua natura, rischierebbe di prendere il volo come un palloncino (Ahhh! reagisce esageratamente l’adolescente scontrosa, quando il padre la tocca appena e per sbaglio…).
Certamente un buon libro da leggere in assoluta scioltezza e che non è mai afflitto da banalità. Non è poco di questi tempi, dove si pende non infrequentemente tra la gravità insopportabile e la leggerezza inconsistente…


(di Roberto Masiero)

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