Via del tabacco
Questi luoghi mi riportano indietro di decenni, quando da bambino e poi da ragazzo passavo ogni anno, più volte, per raggiungere il Trentino. Mia madre conduceva la 124 bianca con sicurezza e qui, poco dopo Bassano, poco prima della Valsugana, la strada si stringe tra le montagne aspre, nude, con irregolare perpendicolarità che, agli occhi bambini, potevi immaginare che ti guardavano e decidevano se schiacciarti o risparmiarti. Se c’era sole tutto andava bene; se pioveva, il grigiore e l’umido erano un tutt’uno con la Brenta, e immaginavo che qui potessero vivere solo persone dotate di nostalgie struggenti, capaci di convivere con orizzonti monchi, aventi calli nel cuore ad abituarli alla mancanza di entusiasmi.
Da quel che so il percorso dura due ore fino a Piangrande, diciassettesimo tornante: sarà la mia tappa ristoro: pranzo e poi ritorno alla base.
Sin da subito la salita tira, e dall’inizio i terrazzamenti sono visibili, seppur riconvertiti a orto dietro casa o praticello con giochi per bambini e barbecue.
La via del tabacco, da Valstagna fino a su, a seconda di dove ci si vuol fermare, è un percorso che devo ripetere, che sento il bisogno di fare, confidando nell’incontro con quello che necessito per rimettere mano alla scrittura di luoghi e persone, che ho sospeso per altri impegni.
Il cielo è pulito, il sole scalda, le gambe faticano e il sudore lo dimostra; il sentiero di rocce e terriccio, la vegetazione selvaggia, la ripidezza, le zone ombrose e umide si avvicendano senza regolarità, e costringono all’attenzione costante. Al contempo con l’avanzare della salita la sensazione è di straniamento, di parentesi temporale.
Aumento il ritmo a dispetto della fatica e inizio a sentire una sorta di aderenza emotiva ai luoghi, a chi li ha percorsi nei secoli scorsi, in particolare a quei contrabbandieri di tabacco che li usavano per oltrepassare confini che oggi non sono più gli stessi di allora.
Sento quanta fatica, quanto sacrificio in cambio non certo del superfluo, ma della povera sopravvivenza: rischiare l’arresto, giorni e notti di cammino in ogni condizione atmosferica in cambio, magari, di un po’ di carne secca per tirare avanti.
E sento, quasi palpo, la rabbia e l’ammirazione di Emilio Castellani, che qui aveva passato un breve periodo per stare con la gente del posto, per sentirne sottopelle l’accettazione ad una vita austera, ombrosa, eppure, in qualche modo, vitale.
E ripenso a Robert Musil che in Val dei Mocheni aveva scritto un racconto bellissimo, sospeso in un’atmosfera quasi sociologica seppur surreale, dal titolo “la Grigia”.
E dopo curve e salita e pensieri e distacco e apnea e immersione in questo bosco anomalo, arrivo dagli amici a Piangrande, sudato e felice, senza avere parole che riescano a comunicare questo stato, che riesco a ritrovare soltanto oggi, a distanza di qualche giorno.