Via Dante

viadanteLei stava tutte le sere al solito posto: una vietta che taglia trasversalmente due delle arterie principali di questa città, media nelle dimensioni, anche se anomala come storia e carattere, rispetto al serioso e operoso nordest.
Ogni sera, imperterrita e puntuale come una sentinella, occupava fieramente  quella strada, lunga solo trecento metri, assieme a poche altre sue coetanee.
Il mercato con cui dovevano concorrere era talmente sproporzionato a loro sfavore, da suscitare quantomeno curiosità.
A quella stessa ora, in varie zone della città, ragazze di ogni razza e colore operavano i saldi per l’intera stagione, ostentando argomenti ben più appetibili e convincenti.
Non poteva sfuggire al suo occhio, così curioso e professionalmente allenato a scovare storie, un così appariscente contrasto.
Decise di studiare con attenzione quel fenomeno per comprenderne i segreti; doveva esisterne uno, recondito ma plausibile, da giustificare lunghe e solitarie attese e continui passaggi di gente che si rivolgeva a loro con espressioni sarcastiche.

Era evidente che il tenore di quella strada assumeva i contorni beffardi che ogni stridente contrasto, normalmente, suscita.
Anche lui se la rideva le prime volte, definendo, dentro sé, quell’angolo di città “geronto-meretricio”, sentendosi orgoglioso di aver inventato un neologismo, e anche di aver scoperto un nuovo pezzo di umanità, anarcoide e anacronistica, decisamente fuori dagli schemi.
Era sicura fonte di ispirazione e  gli avrebbe fruttato una storia dignitosa; se condita a dovere, sarebbe riuscito a renderla misteriosa e accattivante.
L’aveva letto e sentito in molte conferenze: qualsiasi scrittore aveva, in realtà, pochissime idee nel corso dell’intera esistenza, e doveva coltivare quei guizzi geniali e rarissimi come si trattasse di merce preziosa.
Lui, purtroppo, non faceva eccezione a quella regola.
Queste arrivavano inaspettate, repentine; guai a lasciarsele sfuggire.
Tutto il resto era mestiere: parole appiccicate attorno a quel nucleo illuminato.

La prima sera stette 2 ore; appostato a dovuta distanza, per non farsi notare.
Quella sera, dalle dieci all’una e mezza, in tutto due clienti.
Un giovane dall’aspetto del militare e uno sui 40, anonimo, con un’aria che trasudava solitudine: i due, complessivamente, l’avevano impegnata 24 minuti.
Avevano dovuto cacciare le visite di qualche ubriaco, o di qualcuno che cercava compagnia gratuita.
Loro, lei in particolare, sembravano resistere e non cedere non per mancanza di cuore o di comprensione (erano anche loro, in fin dei conti, ai margini di non ben definiti confini riconosciuti e ufficializzati dalla società): si trattava piuttosto, ne era certo, di un’ adesione e una fedeltà totale a un’etica che l’esperienza insegnava loro.
Una volta rotta quella regola avrebbero indotto chiunque a ritenersi legittimato a chiedere senza dare, a pretendere senza contraccambiare.
Si notava tuttavia la fatica a mantenere quelle leggi non scritte; col passare degli anni, tutto si trasformava in fatica, anche e soprattutto per la mancanza di contatti umani.

Dopo una settimana di sere noiosamente uguali nei rituali e nella frequenza delle opportunità di guadagno, decise di avvicinarla.
Non si sentiva affatto sicuro e tanto meno adeguato. Temeva più d’ogni altra cosa di risultare sgarbato e inopportuno ma si convinse, facendo appello alla sua storia professionale e umana, che si è credibili solo se autentici.
Mise in moto la macchina, accostò, la fece salire.
Lei gli spiegò subito, senza incertezze, che i lavori che faceva adesso, erano solo di bocca o di mano; rispettivamente venti e dieci euro.
Lui si sentì in dovere di dirle che era un giornalista e che, a tempo perso, scriveva libri che pochi leggevano.
Le confessò che si era incuriosito vedendo una dall’apparente età di sessant’anni,  lavorare ancora.
Lei rispose con un mugugno sordo e, con l’indifferenza di chi raramente si sorprende, gli chiese quale trattamento preferisse.
Lui tergiversò e ostentò un rifiuto cercando con gentilezza di non offenderla, ma lei lo guardò pigra, diresse le sue mani nella patta e lavorò con consumata maestria.
Lui s’arrese e alla fine, schiarendosi la voce per l’imbarazzo e la gradevole  sensazione di compiacimento, le chiese se lo voleva aiutare, raccontandogli la sua storia.
Lei gli propose un patto: gli avrebbe raccontato la sua vita, ma ogni volta lui doveva farsi fare un servizietto, pagare la giusta cifra e dedicare all’intervista, non più di mezz’ora.
Lui diede l’ok con i venti già in mano.
Lei scese goffamente a causa di quel suo corpo dilatato e inflaccidito dall’età e dallo stile di vita equivoco.
Col suo piglio stanco ma caparbio, lei gli promise segreti e misteri, ma anche normali vicissitudini  quotidiane.
Premise solo che era una via di mezzo tra passione e abitudine dopo trentacinque anni di lavoro in strada.
Lui stava per ingranare la prima quando sentì bussare al finestrino.
Era lei, voleva dirgli un’ultima cosa.
Abbassò il finestrino; la faccia di lei, larga e cadente anche se simpatica, invase con grazia l’abitacolo.
Gli chiese se per caso non avesse voluto cominciare quella sera: non gli sembrò vero e, senz’esitare, le riaprì la portiera.
Lei abbozzò un esordio di discorso e, quasi borbottando, gli disse che sarebbero dovuti stare in macchina. Non perché non si fidasse; si vedeva che lui era un bravo ragazzo, anche se dall’aria un po’ sciupata. Ma chiarì con fermezza che da almeno quindici anni si era data quella regola, aggiungendo che non  contemplava nemmeno l’idea di andare a casa di lui.
Lo avrebbe trattato come un cliente; l’avrebbe fatta sentire ancora attiva, utile, come quando consolava cuori infranti, solitari, doloranti.
Si accordarono che avrebbero cominciato dall’esordio; lei avrebbe parlato a ruota libera, lui l’avrebbe interrotta solo se avesse ritenuto di approfondire qualche aspetto.
Prima della fine, di comune accordo, lui avrebbe formalizzato quel loro rapporto legalmente, assicurandole l’anonimato e  sciorinando tutti i dettagli tecnici che, per abitudine, ripeteva meccanicamente.
Lo fermò quasi subito: ok, si fidava, non si preoccupasse, calma.

All’età di venticinque anni, sposata da quattro, con due bellissimi bambini di tre e un anno, suo maritò ebbe un incidente.
Descriveva la situazione come fosse una foto; in quel preciso momento, la sua vita, era quella foto. Un bel ritratto di quattro persone qualsiasi, di una famiglia qualunque.
Senza dilungarsi nei particolari, sostenne che quell’evento segnò simultaneamente  la fine e l’inizio di un nuovo destino.
Prima di sposarsi aveva lavorato come impiegata e perciò decise, visti i buoni rapporti che aveva intrattenuto con l’ex datore di lavoro, di recarsi da questi per chiedergli se per caso non l’avesse ripresa.
Per farla breve, le propose ben altro; in cambio l’avrebbe ricompensata. Stordita dalla richiesta, accettò e fu, come promesso,  ripagata.
Pur non potendo dire di aver gradito l’insipido incontro, provò, per la prima volta allora, un sottile e vago piacere scoprendo quanto potere avesse avuto in quell’incontro, ribaltando diametralmente i rapporti preesistenti.
Da segretaria di un ricco e stronzo avvocato, a dominatrice e padrona di un uomo inebetito dalle sue forme.
Tornò trafelata a casa e guardando i suoi figli si sentì sporca ma libera.
Il corrispettivo di un quarto d’ora equivoco eguagliava sette giorni in ufficio.
Quando  alcuni giorni dopo l’avvocato la richiamò per un lavoro, lei chiese, spiazzandolo, di che genere; alla richiesta di lui di una segretaria, lo invitò a cercarsene pure un’altra e sottintese che sarebbe stata interessata, per una cifra congrua, a ben altro.
Da allora, cominciò.
In poco tempo, vista anche la sua bellezza, molti professionisti la chiamarono per consulenze di vario genere.
In qualche  mese riuscì a procacciarsi una cospicua somma che le consentì di abbandonare ogni preoccupazione di sostentamento.
Ma ormai era una di quelle; se ne rendeva conto ma non pativa eccessivamente per una questione che, per lei, era solo una convenzione sociale inflazionata da  moralismo inutile.
Frequentando quell’ambiente si convinse e sviluppò una teoria che tuttora la sosteneva nei momenti più duri.
Perché lei, madre di due bambini, avrebbe dovuto farsi sfruttare da uno stato e da gente che l’avrebbe fatta lavorare molte ore ogni giorno, corrispondendole cifre appena simboliche, sufficienti, quando andava bene, a mantenere la sua famiglia appena?
Ma un avvocato, un notaio o uno qualsiasi di loro, non vendevano una piccola parte del loro tempo e di loro stessi, per avere in cambio una posizione economicamente, e perciò socialmente, privilegiata?
Ma le attrici, le cantanti, non facevano altrettanto?
A lei interessava esclusivamente dare il meno possibile ricavandone il giusto; e visto che era ben introdotta, decideva di volta in volta a quanto corrispondeva quel giusto.
Mentre raccontava tutto questo, ogni tanto sorrideva, come chi pesca un ricordo quasi dimenticato.
La sua auto-alcova era diventata simbolicamente la sede di un nuovo organismo che avrebbe fondato un nuovo ordine morale, un ribaltamento  netto e logico dello status quo.
Quando lei parlava, lui riusciva talvolta, tra un appunto e l’altro, ad alzare lo sguardo e osservarla. Pensava a come si cambia avanzando con gli anni; a come il nostro corpo mutava incessantemente, seppur con gradualità, trasfigurando i lineamenti del volto.
Pensò che questo era naturale e che forse serviva per lasciare un ricordo legato alla persona che siamo dentro, all’anima, piuttosto che al corpo.
Lei s’interruppe, come gli avesse letto dentro e gli chiese se avrebbe voluto vedere, al prossimo incontro, una foto dell’epoca.
Provò un senso di smarrimento e gratitudine e rispose affermativamente, cercando di non far trapelare la propria commozione. Se ne pentì subito; comprese che l’interlocutrice, sebbene in avanti col tempo e senza qualifica alcuna, capiva meglio di molti affermati esperti, le persone. Si sentì come un bambino che viene scoperto in flagranza di divieto; ne percepì l’inutilità, in quel luogo così strano, così lontano da ogni formalismo, così vicino allo sdoganamento di ogni verità.
Lei controllò l’orologio e gli fece cenno di tornare in via Dante.
Stettero in silenzio nel breve tragitto. Non era però un silenzio imbarazzato; era, piuttosto, rilassato, non in preda al bisogno di riempire ogni vuoto.
 
Arrivarono. Lui le chiese quando avrebbero potuto rivedersi; lei ci pensò, perfettamente a suo agio, senza preoccuparsi di apparire supponente, come chi finge di guardare un’agenda tragicamente vuota fingendo che sia piena d’appuntamenti.
Decretò solenne il giorno e l’ora.
Prima di scendere, abbozzando un sorriso, lo guardò dritto negli occhi.
L’espressione era fresca e allegra anche se ferma.
Dopo un inaspettato ma plausibile occhiolino disse: “non sono la più vecchia. Ce n’è una che ne ha sessantatre”.
Salutò e tornò in postazione.
Lui si allontanò sorridendo: era solo la prima puntata, pensò.

(di Cristiano Prakash Dorigo)

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