Vecchi mestieri
«Sto cercando Piero Crepaldi!» esclamai.
Una faccia sparì dietro una tenda e improvvisamente ricomparve sull’uscio dicendo: «È andato a casa. La prima strada a sinistra prima del bosco», e si dileguò di nuovo. Presi la strada indicata, chiesi informazioni alla prima casa e trovai Piero alla fine della contrada.
«Sto cercando la vecchia miniera di sale di cui si parla nel depliant turistico e in paese mi hanno detto che lei accompagna chi vuole visitarla…»
«È vero. Però oggi devo andare a tagliare le ginestre», mi disse.
«Capisco. Forse però può dirmi come fare ad arrivarci.»
Si tolse il berretto e si passò una mano sulla testa. «Certo, andarci è possibile: non è poi così lontano. Però è difficile spiegarti la strada. Mi spiace proprio di non poterti accompagnare». Si rimise il berretto. «Senti una cosa: vieni con me fino al posto dove devo andare, così sei sulla strada giusta e puoi vedere il punto da cui partire.»
Aveva gambali, guanti, un falcetto e una pietra per affilarlo. Si notava come la sua vita quotidiana era fatta di un mondo che si estendeva in un raggio di pochi chilometri.
Nel tepore del pomeriggio seguimmo una strada sterrata che divenne presto uno stretto sentiero erboso. Ci fermammo in una piccola radura. «Questa è una vecchia proprietà della mia famiglia», disse. «Là in fondo sotto la collina puoi vedere la Cervara. La miniera è da qualche parte laggiù, sulla sinistra dove c’è quello spiazzo. Vieni, ti mostro un’altra cosa.»
Camminammo fino al rudere di una vecchia casa e Piero mi invitò a entrarci. Appena entrati, sulla sinistra, era appeso un decrepito stipetto da cucina rivestito di giornali all’interno. «Sono roba vecchia», disse Piero. «Una volta si usavano i giornali per non far entrare l’aria fredda dalle fessure. Se leggi le date puoi capire che sono qui da una vita e mezza.»
Prese un mestolo arrugginito dallo stipetto, lo guardò accigliato e lo rimise al suo posto. «Quando ero bambino, in questa casa ci viveva uno straniero. Una sera passai di qui con mio padre e sbirciai dalla finestra. Ricordo che tutti questi muri erano pieni di orologi di legno chiaro e scuro, con le cifre dipinte e i decori dorati. Ce n’erano sugli scaffali, per terra e sopra la tavola. Mio padre mi raccontò che Abramo, questo era il nome dell’uomo, costruiva e riparava gli orologi, ma ai suoi tempi era stato tra i più importanti e riconosciuti prestigiatori tanto da aver rivoluzionato l’arte magica con degli strani meccanismi.»
«Un genio incompreso scappato dal mondo…»
«Chi lo sa, forse un eremita contento, non lo so, non l’ho mai capito. Dicono fosse venuto ad abitare qui per il ricordo di una donna, ma il motivo non è mai stato chiaro.»
«Forse voleva solo starsene in pace.»
«Mio padre diceva che era ossessionato dal fatto di essere fotografato. Forse aveva qualcosa da nascondere.»
In quel momento ebbi l’euforica, ultraterrena sensazione che talvolta si ha quando si entra nel privato della vita altrui, una sensazione strana.
«Non è rimasto più niente di lui, immagino», chiesi.
«Un giorno è scomparso così, senza spiegazioni. Poi non si è saputo più niente. Sparito senza lasciare traccia. Al paese non gli rivolgevano mai la parola, gli portavano talvolta della frutta o degli ortaggi, ma per il resto lo ignoravano.»
Contro un pilastro c’era un mucchio di vecchi quadri, per lo più bozzetti di alberi e montagne. Mentre curiosavo, uno in particolare attirò il mio sguardo. Era un curioso quadro a olio e pareva incompiuto. Soffiai via con cura la polvere e subito notai che la tela era intatta. Allora lo sollevai per esporlo alla luce.
Mi colpì in modo inspiegabile.
Era il ritratto di una giovane donna stranamente indistinto, come se i colori a olio fossero trasparenti. Aveva una semplice camicetta estiva di colore bianco e i capelli biondi raccolti in un chignon. Sullo sfondo una valle cupa e in primo piano una piantagione di tabacco. Il viso, enigmatico, esprimeva uno stato d’animo che sembrava cambiare di attimo in attimo.
«Tra queste colline era dura vivere a quei tempi», dissi a Piero mentre continuavo a osservare il dipinto.
«La maggior parte della gente si dedicava alla coltivazione del tabacco. Hai visto tutti quei terrazzamenti, no? Ogni fazzoletto di terra qui era buono, ma a fondo valle, vicino alle case, si faceva meno fatica.»
«Mi pare di aver letto da qualche parte che si faceva anche del contrabbando?»
«È chiaro. Grotte come quelle che vedi lassù favorivano l’attività illegale, erano degli ottimi nascondigli per il tabacco e per i contrabbandieri. Poi qui eravamo vicini al confine…»
«Erano tante le ragazze che lavoravano nelle piantagioni?», domandai.
«Si, parecchie e tutte molto giovani. I sorveglianti le controllavano a vista e guai se aprivano bocca per parlare quando lavoravano. Da queste parti non si poteva perdere tempo. Nel periodo che seguiva la semina cominciavano a dare da bere alle piantine dalle quattro della mattina e stavano immerse per ore nella terra bagnata fino ai polpacci.»
Posai il quadro e il suo mistero dove l’avevo trovato e ci incamminammo attraverso un bosco di castagni. In poco tempo arrivammo in un’altra radura dove c’erano dei piccoli essiccatoi dal tetto cadente e con un vecchio affumicatoio.
«Questi erano i vecchi depositi dove si mettevano le foglie a seccare. Da anni non li usa più nessuno, ma l’aroma del tabacco si sente ancora». Me ne mostrò in particolare uno e ci avvicinammo per osservarlo da vicino. «Hai visto? La cappa del braciere è il cofano di un camion rimartellato da un fabbro».
«Allora non si buttava via niente. I rottami sono un’invenzione dei giorni nostri». Entrammo da una piccola porta. I pali cui le donne un tempo appendevano il tabacco erano ancora in posizione sotto il tetto.
Piero mi spiegò il procedimento della concia: per “fissare il colore”, le foglie restavano appese tre giorni e tre notti a quei pali incrociati, in attesa che il calore del fuoco facesse il suo effetto. Tutta l’abilità stava nell’ottenere il colore giusto: da quello dipendeva la perdita o il guadagno. Quando assumevano il tipico colore marrone del tabacco il processo era ultimato. Le ragazze selezionavano le foglie, formavano dei mazzetti di varie grandezze che legavano con una foglia di tabacco. La sera contavano quanti ne avevano fatti a testa: più ne facevano più soldi prendevano. In un altro magazzino si svolgevano i mazzetti e si stipavano le foglie di tabacco dentro casse rivestite di iuta. Quando le casse erano belle piene le ragazze cucivano la iuta attorno alle foglie e numeravano il sacco: le balle di tabacco potevano essere finalmente spedite.»
Anche Piero da ragazzo era stato parecchie notti a vegliare con gli uomini che badavano al fuoco. «Raccontavano storie tutta la notte. In particolare c’era il vecchio Trona che ci assediava con tutti quei racconti sulla Turchia dov’era stato a lavorare da giovane. “Il migliore modo per conoscere una città è il bazar”, non si stancava mai di ripetere. Lì aveva scoperto il tabacco molasses, il migliore del mondo, un tabacco straordinario che si fumava col narghilé e poteva far cambiare colore alla pelle e anche agli occhi.»
«Una sorta di pozione magica.»
«Così raccontava il Trona e c’è chi dice che il suo molasses l’abbia prodotto anche qui, da qualche parte. Sembra lo avesse mescolato anche con la resina dei larici del suo bosco che secondo lui aveva delle proprietà uniche. Faceva ridere vederlo fumare col narghilé mentre tutti gli altri tabaccavano il coston da fumo che era di pessima qualità. Per lui fumare così era una specie di rito. “Quando si fuma il narghilé”, diceva il Trona, “bisogna avere tempo per pensare. Il narghilé insegna ad avere pazienza, a essere tolleranti, fa apprezzare la buona compagnia”. E lui era la persona più tollerante che abbia mai conosciuto, aveva un rapporto armonioso con la vita, era veramente un uomo sereno.»
Restai insieme a Piero ancora per poco, fino a una svolta del sentiero, al margine di un campo di mais in cui c’era un rudere ormai privo di mattoni, di cui restavano solo pareti di legno scuro.
«Ci vediamo più vecchi?» disse Piero per salutarmi e il tono pacato, meditabondo, con cui pose quella domanda suggeriva come non si aspettasse una risposta.
Lo salutai alzando la mano e solo allora sentii quell’aria così pulita sul viso. Forse per questo motivo gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Per un po’, mentre camminavo, pensai ad Abramo, ma anche al vecchio Trona e al suo narghilé, a quei dettagli isolati di quelle loro vite così diverse.
Scesi giù lungo un pendio boscoso fino al letto immobile e sassoso della Cervara.
Sentivo abbaiare i cani e mi pareva di udire delle voci. Certe piante erano ancora cariche di frutta e mi riparavano mentre seguivo il fiume secco e la luce del giorno andava scomparendo.
Ecco: la miniera doveva essere qui. Prima che costruissero la diga, si poteva camminare lungo tutto il torrente senza mai vedere il sole, tanto la vegetazione era fitta.
Si vedeva che le sponde erano fatte di una buona terra. Per questo i vecchi ci hanno sempre tenuto tanto, mi dissi. Qui c’era davvero tutto il necessario.
Il vento continuava a sussurrare tra i castagni che ondeggiavano al ritmo di una musica immaginaria.
Con il vento notturno arrivò un leggero profumo di gelsomino. Tutto era silenzioso, raccolto, misterioso.
Chiusi allora gli occhi e mi impaurii, inspiegabilmente felice.
(racconto di Marco Crestani)