Una tenera compassione
Quando arrivo alla mattina, proprio davanti alla porta, mi ritrovo a pensare: “suono il campanello o uso le chiavi? In fin dei conti è casa loro.”.
Poi tiro fuori le chiavi con un gesto meccanico, apro, salgo le scale, entro in appartamento.
Prima della cucina, ci sono sei porte: quattro camere e due bagni.
Dietro ogni porta, dentro ogni camera, una storia.
Ogni storia, una giovane donna.
Ogni giovane donna, ha la possibilità di chiudere la porta e provare ad abitare la propria esistenza, dopo aver convissuto con obblighi e costrizioni decise da altri.
Questo conduce alla libertà, alla solitudine, alla novità di entrambe queste forme astratte, e alla potenzialità di trasformarle in scelte concrete.
Ma ci vuole tempo per giostrarsi tra astrazione e concretezza, per capire che la vita è la nostra, e che possederla include una serie di diritti e di doveri, codificati da altri.
“Da dove si comincia con queste ragazze?, mi chiedo; parlane con loro, mi rispondo.”
Mi siedo in cucina, accendo il computer, verifico le mail, mi preparo un caffè, faccio un paio di telefonate.
Mentre sono concentrato su quello che sto facendo, arriva Giulietta. Gironzola intorno al tavolo, finché si siede davanti a me.
Inizia a parlare di questo e di quello, mentre io l’ascolto e tento di scrivere una relazione; mi parla del tirocinio che sta facendo, del moroso, ormai ex, che la tormenta, del fatto che vorrebbe cambiar vita in quanto questa la sta soffocando.
La guardo, probabilmente con un’espressione assorta, e le chiedo cosa stia facendo per cambiare la sua vita.
Non appena pronunciate quelle parole, capisco di averle comunicato la mia indisponibilità al dialogo, di aver chiuso invece di aver aperto.
Capisco che il mio linguaggio – quello che le ho detto, cosa ho detto, come gliel’ho detto -, ha comunicato altre parole da quelle pronunciate: queste parole dicevano “scusa ma sto facendo altro, e tu dovresti preoccuparti di fatti concreti invece di lamentarti”.
Qual’è il confine tra quello che sarebbe giusto e quello che non lo è?
Com’è una relazione che antepone il dovere, alla possibilità di riformularne uno personale, che includa anche il diritto alla scomodità e all’inopportunità di quel dovere?
Propongo a Giulietta di fare insieme la lista della spesa e uscire a comprare quel che serve.
Pensiamo di fare una pasta col pomodoro fresco.
“Autonomia domestica”, penso.
Per costruire una base solida, si può approfittare dell’occasione, e iniziare anche da una pasta.
Prendiamo carta e penna. Cosa serve per fare una pasta fresca al pomodoro?
La pasta, il pomodoro, una cipolla o aglio, formaggio.
Bene: quanto tempo ci si mette? Mezz’ora a prepararla, mezz’ora per andare a prendere gli ingredienti. Quanto costerà? Magari dopo si guardano insieme gli scontrini.
L’autonomia domestica, almeno quella, ha una sua sequenza operativa, una sorta di procedura matematica: pezzo sommato a pezzo, si arriva al risultato.
Finisco di scrivere le due mail e poi andiamo, le dico.
Lei si prepara.
Usciamo.
Andiamo al mercato.
Prendiamo quello che serve. Ogni volta le passo il portafogli che uso come cassa. Lei mi fa notare che non sa fare i conti, ma io le dico di pagare, farsi dare lo scontrino, e insieme controlleremo il resto.
Quando era a casa, era ancora bambina.
Una bambina che ne ha viste e subite di ogni genere.
L’educazione che le hanno imposto, è stata quella di fare spallucce, di fregarsene, di soprassedere.
Anche se qualcuno urlava in casa, bastava abituarsi alle urla.
Anche se qualcuno di notte entrava in camera sua e delle sue sorelle e si sdraiava con loro, bastava pensare ad altro.
Se si faceva così, durava meno.
Dopo il mercato, andiamo al piccolo supermercato.
Prendiamo la pasta, il formaggio grattugiato, e ci dirigiamo verso la cassa.
Al momento di pagare, le passo il portafogli, e paga ancora lei.
Sorride: è felice di aver compiuto un gesto che presuppone fiducia.
La fiducia è quella che manca di più quando si è imparato solo a fingere che qualcosa di impalpabile ma concreto, come la paura, l’angoscia, la violenza, non esista.
E anche se esistesse, basterebbe far finta di niente.
E allora la fiducia, il credere o l’essere creduti, diventa impalpabile, seppur concreto.
Usciamo e lei sorride.
Mi si attacca al fianco, mi prende a braccetto, sorride.
Oggi le è stato concesso di credere di essere capace di far la spesa.
E questo la rende soddisfatta e felice perché si è sentita normale.
Torniamo e prepariamo il pranzo.
Faccio io, dice; tu fai pure quello che devi fare.
Nel frattempo rientra Lucia dall’ufficio anagrafe.
Sta facendo i documenti perché vuole sposarsi con Renzo.
Il matrimonio che, verrebbe da dire, non s’ha da fare, perché fondato sull’illusione di un qualcosa che non c’è, e che si spera ci sarà, senza sperarci troppo.
Un matrimonio di interesse: ci sono dei documenti da sistemare, ma forse, ancor più, due solitudini da mettere insieme, affidandosi all’algebra che insegna che uno più uno fa due.
Quando non ci sono appigli, quando non si sa come-cosa-perché, ci si aggrappa alla fede, che può essere unguento o, in certi casi, incerta consolazione in divenire.
Quei come, quei cosa, quei perché, sono le domande senza risposta di chi non sa il mondo, non conosce il suo alfabeto, non ne capisce la grammatica. L’unica certezza, il non voler essere come quei genitori che non hanno mai saputo vivere, e che producendo figli a go go, hanno trasmesso un’abilità unica nel sopravvivere: considerando il sapore dolce e amaro della vita, è cmq roba da palati fini, e non certo da gente che ha sempre faticato, che non ha tempo per le finezze, per il retrogusto.
“E allora Renzo sarà mio marito, e io gli farò da madre, da amante, da cuoca; e speriamo vada bene.”
E se non andrà bene, tanto lo sapeva già che sarebbe andata a finire così.
Mi chiedo che sapore ha la mia, di vita.
E se davvero penso che riuscirò a dare al palato di Lucia la curiosità e la voglia di assaggiare qualcosa di nuovo.
Vorrei dirmi di sì, che io so come si fa; ma in realtà, tutto quello che so, è poco, e quel poco non dipende da me sceglierlo: al massimo gli posso dare una passata di colore e farlo sembrare gustoso.
Mi chiama Terese mi dice che ha bisogno di vedermi.
Le fisso un appuntamento, ma lei insiste: se avessi mezz’ora, adesso, ne avrebbe davvero bisogno.
Esco, dicendo alle altre che mi assento un poco e poi torno.
La vedo già che sono ancora in calle.
La riconosco d’istinto, non certo per l’acutezza della vista; ha una forma unica, come il suo modo di stare al mondo.
È circondata dal fumo, che l’avvolge sempre.
La raggiungo.
Ci diciamo ciao.
Ci sediamo su una panchina davanti alla laguna, a fondamente nove, di fronte a san Michele e Murano.
La vista toglie il fiato, l’aria è dolce, il sole carezza la pelle.
Si accende una sigaretta subito dopo averne buttata una a terra.
“Devo dirti una cosa importante, prima però devi giurarmi che rimane tra noi.”
Subito penso che il mio lavoro consiste nell’instaurare una relazione adulta, e che le promesse che non posso mantenere, non me le posso permettere. “Se non è così grave o urgente, diciamo che posso tacere per un poco”, le rispondo.
“Sono incinta. Io e quello scemo di Thomas l’abbiamo fatto, ed è successo. Non so cosa fare.”
Prima di iniziare a fare questo lavoro, pensavo che ci fosse una sorta di saggezza taumaturgica, e che ogni domanda avesse una sua precisa e pronta risposta.
Ora, dopo tanti anni, dopo molti errori, so solo che si trattava di una mia ingenuità.
Chi ha sempre la risposta, chi finge di averla, è un impostore.
“Non so cosa dirti Terese, così a caldo. Quello che posso, è invitarti a parlarne, ad andare a fondo, per trovare se non la risposta, almeno un pensiero, un’indicazione, un qualcosa che ti tolga un po’ di peso.”
Al di là della decisione che prenderà, che a me pare di percepire già dal tono con cui parla, quello che più le preme è condividere la scelta; o addirittura immaginare che l’abbia presa un altro e lei non si sia potuta sottrarre a qualcosa di imposto.
Ricordo ancora il giorno in cui lessi l’articoletto sul giornale che descriveva la sentenza del tribunale, che condannava la madre e l’attuale compagno, al risarcimento nei suoi confronti, per abuso.
La madre aveva mentito in proposito, pur sotto giuramento, coprendo il compagno. Forse non pensava che, coprendolo, avrebbe infranto due Leggi: quella del codice penale, e quella non scritta che dice che una madre protegge i suoi cuccioli.
La guardo, mentre accende un’altra sigaretta, e provo una compassione tenera.
Non ho risposte che non siano logiche, che non rispondano ad altro che a quello che è giusto secondo i parametri del buon senso.
Lei ha bisogno di sentirseli verbalizzare, di sentirseli ripetere, di sottoporli a chiunque abbia un ruolo, una funzione: ha bisogno di condividere, di prendere quella roba là che la sta un poco soffocando, e immaginare che così facendo, quel blocco nero, duro, compatto, si frantumerà e le peserà meno.
Concludiamo il nostro incontro rimandandolo a tre giorni dopo, durante i quali mi impegno a tener fede al nostro segreto, e lei, e anche io, ci penseremo su.
Sta arrivando il vaporetto, spegne la cicca burattandola a terra, dicendo tra sé che è tutta salute guadagnata.