Una riflessione di Dick Moby
Non lo sapevo. E non me l’hanno detto.
Così ho dovuto imparare da sola.
Li ho sentiti gli sguardi del mio branco, che volevano capire come me la cavavo, e se ci lasciavo un pezzo di muso o di coda, o tutto. Da allora non sarei più rimasta con loro, se non per una convenienza momentanea, e fingendo di non aver capito che mi sopportavano appena. Se non c’ero era meglio per tutti. Ma non andava così per me, in quel tempo.
D’accordo, ero bianca; e lo sono ancora. E poi, bianca per modo di dire. Un colore così, come certe scogliere, alte, che a volte brillano al sole, e altrove sono piatte, un opaco variare della terra, come di una sabbia forse.
Incrociata con il bianco del latte che ho lasciato molto presto spargersi nell’acqua, con rigurgiti e contorsioni. Una ragione in più per odiarmi.
Mi fecero capire che dovevo io andare per prima contro quella cosa scura e galleggiante. Allora imparai davvero cos’è una nave.
Non lo sapevo che mi stavano cercando. No, cercavano noi e trovarono me.
Non c’è voluto molto per capire, una volta per tutte, cos’è uno scontro.
Urla, pali, punte che forano e corde. Grida per spaventarmi o per darsi coraggio loro. Per trascinarmi. Solo più tardi, quando è successo ad altre e non a me, è stato chiaro quel grido di trionfo, e che era finita. Una mia compagna era stata uncinata trascinata e portata via.
Per due giorni si alzava dalla nave una nuvola calda e intensa di pezzi della mia amica che veniva bruciata. Questo sì me lo fecero capire in molti modi, come una minaccia seguita da una confidenza superflua; ma i dettagli contano.
Non mi presero, anche se rimasi lì vicino per molto tempo. Cresceva la mia curiosità e poi una paura e proprio un odio; allora divenni violenta e volevo anche andarmene. Avevo un soffio dentro di me come per innalzare un’isola d’acqua e sommergere tutto.
Debbono aver preso paura perché hanno deciso di inseguirmi; avevano anche capito che ormai ero io, la maligna, quella bianca. Con le loro barchette ci potevo giocare, ma sentii che avevano una forza che non mi sono mai spiegata: un odio l’avevano anche loro.
Il secondo scontro; ed è allora che ho colpito, molto, e qualcuna di quelle figurine nere, e uno che da allora mi cerca. Perché qualcosa gli ho fatto, più secondo lui che secondo me.
Ho imparato col tempo parole, bestemmie soprattutto, delle grida così, incerte e insensate, ma anche dei silenzi improvvisi nel mezzo del tumulto. Qualche immagine nella quiete, e gli occhi di Achab. Più tardi ne avrei imparato il nome; allora vedevo il suo piccolo volto irsuto, e la bocca che si apriva e non aveva gridi, e alla fine era un tuono seguito da tuoni.
Mi sorprendeva, e quasi mi toccava. Come se volesse amarmi. Ma lui diceva: uccidermi.
Proprio così: la maledetta bianca, tagliamola a pezzi, voglio il suo cuore.
Gli sfuggivo, ma lo guardavo da lontano. Anche lui mi vedeva di sicuro, mai con indifferenza. Però io non conosco molte sfumature, né di me né degli altri.
Achab certamente sapeva molto, poco o niente ancora di me.
(di Bruno Pompili)
Nuovo inedito capitolo di Il profumo di Dick Moby. Riflessioni di una balena (Bruno Pompili per le Edizioni Priamo, 1996, collana «Il bosco sacro», n. 3: difficile da trovarsi, o quasi impossibile).
Quelle riflessioni sono state utilizzate per una rappresentazione teatrale (Bitonto, Ba, 2013) di Oriana Amendolagine e Alessandra Lorusso (Gruppo Tealtrojazz), per una lettura pubblica del Laboratorio Lettura Scenica di Loris Rampazzo (Thiene, 2014); l’attore Giuseppe Ricci ne ha elaborato un monologo per il «Todi festival 2013».