Un sogno fatto in Sicilia
È naturale che il primo pensiero vada a un ben più celebre Candido, quello di Voltaire. In realtà, il Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia di Leonardo Sciascia ha in comune con lo scritto del filosofo francese solo l’analogia con alcuni personaggi, la struttura del testo – con ciascun capitolo preceduto da un paio di righe riassuntive -, la marcata ironia e il forte spirito anticlericale.
Montesquieu sosteneva che un’opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento altre, «queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule». Lo scrittore siciliano è piuttosto scettico rispetto ai risultati raggiunti con il suo libro, nonostante egli abbia tentato di mantenere una sorta di “velocità” e “leggerezza” nel suo romanzo. Tentativo assai arduo, poiché come egli afferma «greve è il nostro tempo», e grevi sono gli argomenti di cui si parla.
Candido Munafò è un giovane pacato, mite e con un codice di comportamento retto, onesto: per lui le cose sono quasi sempre semplici e le voci «quasi sempre vere». Egli è figlio di un avvocato suicida e nipote di un poco arguto generale, ex fascista, alla fine della guerra diventato militante nella Democrazia Cristiana. Al contrario, Candido parteggia per il Partito Comunista, appoggiato nelle sue scelte dal suo mentore ed educatore don Antonio (richiamo al precettore Pangloss), con il quale manterrà un’amicizia profonda per tutta la vita. DC e PC sono le due fazioni egemoni del dopoguerra italiano: due “terremoti” ideologici, profondamente radicati nel contesto storico in cui la vicenda si colloca – al pari del terremoto di Lisbona del 1755 nell’opera di Voltaire -, degli schieramenti in cui sono evidenti le ambiguità di pensiero: dal teologo che afferma che la verità alle volte fa più male che bene, e per questo è meglio tacerla, ai comunisti che voltano le spalle a Candido quando egli decide di denunciare un tentativo di corruzione, in un affare che concerne la costruzione di un ospedale.
Come in tutti i libri di Sciascia, la mafia è presente: in questo caso latita e compare solo in pochi episodi, mentre nella parte finale viene menzionata in modo esplicito da don Antonio.
«Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole» recitava De Andrè: è possibile per un uomo come Candido essere davvero felice in Sicilia? Come può egli coltivare il suo giardino in pace, senza scontrarsi quotidianamente con l’ottusità mentale, il degrado etico e morale, che trova nella collettività piena legittimazione? La risposta di Sciascia a questi interrogativi è negativa, tanto da mettere in bocca al suo protagonista la frase «non ricominciamo coi padri», durante un confronto con don Antonio. I numerosi viaggi che Candido intraprende con la sua compagna, Francesca, costituiscono una presa di distanza dal passato, dalle proprie radici: dapprima i due decidono di stabilirsi a Torino, poi addirittura all’estero, a Parigi. Perché Parigi? Perché è una città dove si ha l’impressione che «qualcosa stia per finire», e si sa che dove qualcosa finisce, qualcosa sta sempre per iniziare. In Sicilia, invece, tutto sembra immutabile.
Quella di Candido è una storia di emancipazione, oltre che dalla Sicilia, soprattutto da uno stile di vita omertoso, contrastato dalla lotta alla mafia che, purtroppo, nei libri di Sciascia miete più vittime che personaggi in grado di salvarsi e ricominciare daccapo. Per Candido l’allontanamento risponde all’esigenza di non tradire se stesso, i suoi principi e desideri, anche se questo andarsene ha per lui dell’incredibile, come se lasciare la Sicilia fosse, per chi ci è nato, un’utopia. Rivolto a Francesca, alla vigilia della partenza per Parigi, Candido così riflette: «Sai che cos’è la nostra vita, la tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse siamo ancora lì, e stiamo sognando».
(post di Elena Spadiliero)