
Un Natale a Lima
[Sempre dalla mia classe “Italian Writing Workshop” e in tema con l’atmosfera, ecco a voi la breve ma traumatica avventura natalizia della peruviana Rosie Kenna. E.P.]
Era dicembre, il mese più felice dell’anno: in quasi tutti i paesi del mondo la gente si sente allegra, piena di amicizia. A Lima il tempo diventava già migliore, il sole qualche volta appariva; impazientemente, aspettavamo insieme l’arrivo dell’estate, i giorni luminosi e un po’ di caldo.
Avevo sedici anni e la mia vita mi sembrava buona. Ero molto orgogliosa d’aver finito la scuola secondaria, quasi dieci giorni prima, con voti alti e buone amiche. Tutta la mia famiglia avrebbe celebrato un’altra volta la festa di Natale a casa nostra. In Perù, poiché è un paese cattolico, quasi tutti vanno in chiesa prima di festeggiare la vigilia. A mezzanotte, nella chiesa a cui la mia famiglia ed io appartenevamo, si celebrava la Messa più bella. Ogni Natale, una soprano bellissima ed elegante, con una voce d’angelo, guidava il coro. Il ricordo della sua voce è ancora vivo nel mio cuore.
Dopo la Messa salutammo e augurammo Buon Natale ai nostri amici. Era quasi l’una e mezza di mattina del 25 dicembre ed eravamo già di ritorno a casa. Mia mamma aveva preparato una deliziosa cena il giorno prima e aveva fretta di apparecchiare gli spuntini che stavamo per assaporare nella sala da pranzo. È un artista del cibo. Ogni Natale cenavamo meravigliosamente. Da bere c’era dello spumante freddo. Di solito s’iniziava ogni celebrazione con un brindisi. Mia zia chiese a suo marito d’andare in cucina ad aprire la bottiglia di spumante e di portarla nella stanza in cui ci trovavamo.
Ero troppo curiosa di sapere cosa aveva preparato la mamma e dopo un po’ me andai anch’io in cucina e vedere i piatti. Ma sfortunatamente quella curiosità e gioia che avevo, da un momento all’altro, finirono. Fu un dolore intensissimo. Vidi tutto nero. Non sapevo cosa fosse successo. Urlai e piansi così forte che ricordo d’aver subito avvertito la presenza di mia mamma, mia sorella, tutti accanto a me. Mentre piangevo, cieca, sentivo mia mamma agitarsi e chiedere al mio babbo cosa fare e mia zia che urlava come una pazza a suo marito per aver lasciato lo spumante mezzo aperto vicino ai vassoi dei cibi, col tappo ch’era uscito sparato. Tutti poi avrebbero ricordato d’aver udito dalla sala da pranzo il suono del sughero che viaggiava dalla bottiglia verso il mio occhio.
All’inizio il dolore era troppo forte per dire qualcosa.Nella mia testa un frullo di pensieri e intenzioni: “voglio aprire il mio occhio e sapere se riesco a vedere!” E la memoria di un altro incidente grave e doloroso la settimana prima, quando avevo chiuso la portiera della macchina con il dito dentro. Non ricordo chi avesse preso la maniglia per liberarmi pollice, ma quel dolore era così terribile… eppure meno di questo. In quella circostanza mia mamma mi aveva portato dal dottore, che mi disse che l’unghia sarebbe caduta. Giorni dopo cadde. Andai alla festa di fine anno scolastico senza un’unghia.
Tutti questi pensieri erano nella mia testa: che faremo? Andremo al pronto soccorso? Ci sono dottori oggi, a Natale? Avrei perso l’occhio? Non sapevo. Erano quasi le due di mattina. E quando avrebbe mangiato la famiglia che era venuta per festeggiare con noi? Nei quindici minuti che ci vollero da casa mia alla clinica la mia parte razionale decise questo: “Il corpo è capace, da solo, di affrontare ciò che mi ha ferito e le ferite del corpo si rimarginano spontaneamente”. Sapevo che il cervello produce in continuazione le sostanze del benessere. Ma d’altra parte continuavo a pensare di aver già perso un’unghia, cosa sarebbe successo al mio occhio? Pensarci era spaventoso per me. Non c’erano pazienti quella notte in quella costosa clinica privata. Il dottore era solo. Mi disse che il muscolo oculare è forte. Ricordo che mise alcune gocce e fece alcuni test. Mise una benda sul mio occhio e ritornammo a casa.
Avevamo cibo da mangiare e regali da aprire.