Quelle parole entravano in me…
Ieri sera tornando a casa in auto, lungo l’autostrada, ascoltando prima il finale del cd di Rocchi-Maroccolo, e poi le sonate per pianoforte di Brahms eseguite da Gould, ripensavo alla serata, alla mia vita, alla leggerezza, al senso del non senso.
Ero stanco: venerdì sera estivo, ferie da fare, molti progetti in sospeso che danno euforia e che schiacciano col loro peso specifico, in un gioco di continui equilibrismi, mai stabili.
La mattina avevo accompagnato mia figlia in aeroporto: se ne andava con la figlia di una coppia di amici, vicino a Londra, ospitate da una coppia di altri amici. Erano euforiche, emozionate, tese, protese al divenire: noi eravamo là, che le guardavamo sparire oltre l’enorme fila di persone in movimento, facendo conti che non tornano mai, ripensando a quando eravamo noi al loro posto, e i nostri genitori ci guardavano, mentre iniziavamo ad allontanarci, a iniziare da quel momento, per sempre: e pare impossibile che siano passati tutti quei decenni senza che quasi ce ne siamo accorti.
Ecco cos’è lo scarto generazionale, il passare del tempo, l’inesorabile.
Da anni mi dedico alla scrittura.
Più di recente anche della lettura di quello che scrivo.
Ieri sera a Breganze Marco Crestani e io siamo stati invitati dalla “LaAV” (acronimo di lettura a alta voce) locale a presentare il libro “Cartoline dal fronte”: per l’occasione hanno letto le volontarie di questa associazione che si occupa di portare la passione per la lettura in situazioni particolari (reparti ospedalieri, carceri, comunità, eccetera).
Prima di iniziare la presentazione il mio amico ospitante mi aveva mandato un paio di foto delle sue due figlie in compagnia delle nostre. Quando eravamo più giovani ci scrivevamo spesso, io e lui; e mi è venuto spontaneo dirgli che sono bellissime e chiedergli se si ricordava quando eravamo noi i protagonisti delle foto, e avevamo quegli sguardi di chi guarda il mondo con sfrontatezza, timore, incertezza e infinità.
E con quello stato d’animo abbiamo iniziato la bella serata in biblioteca: ci hanno presentati, noi abbiamo iniziato a parlare del libro, di come era venuto al mondo, delle situazioni che avevamo raccontato; questo, alternato a letture che ciascuna di loro ha dedicato a una storia del libro (in tutto ne hanno lette sei).
E’ stato molto diverso dal solito: normalmente sono io il lettore, e quello che leggo diventa per me una sorta di incarnazione della parola scritta. Quando leggo i racconti dei miei libri – in questo caso del “nostro” – le parole hanno una connotazione e una collocazione tali, per cui divento un tutt’uno con esse.
Ieri invece mi è successo un fenomeno diametralmente opposto: quelle parole entravano in me – e credo, allo stesso modo, agli altri spettatori – da fuori: non ero un’unità con loro, ma le ascoltavo e accoglievo come altro da me.
Quasi sempre ricordavo esattamente come ci avevo lavorato, come mi erano venute le storie, tranne che per un racconto: mentre lo leggevano, mi sono accorto che l’avevo quasi dimenticato; allora ho preso il libro e ho iniziato a leggerlo parallelamente alla lettura ad alta voce, riconoscendo le mie parole, pur sentendole come comparissero in quel momento per la prima volta davanti ai miei occhi, alle mie orecchie. Una volta concluso il racconto ho provato a verbalizzare il mio vissuto: a dire che quando si scrive si sa che poi le parole le si deve lasciare agli altri, a chi le legge, le ascolta, le pensa; e ho aggiunto che è come se avessi lasciato il corpo e mi fossi trasferito per quei due minuti, fuori da me.
La serata è andata avanti, si è conclusa, ci siamo salutati, ringraziati vicendevolmente, promessi che ci saremmo certamente rivisti.
E sono ripartito, da solo.
In autostrada ascoltavo prima il finale del cd di Rocchi-Maroccolo, e poi le sonate per pianoforte di Brahms eseguite da Gould, ripensavo alla serata, alla mia vita, alla leggerezza, al senso del non senso.
E pensavo alle parole e a mia figlia e agli amici: gli amici rimangono in qualche luogo fisico e sentimentale; le prime due stavano con me il tempo necessario a imparare ad andarsene; e poi incontreranno altre persone, si mischieranno alle loro invece, andranno avanti autonomamente – seppur strettamente legate a me – a vivere il proprio destino.
E provavo un senso di leggerezza e gratitudine, con una punta di malinconia.