Quando non se ne può più, si cambia
Parlare de Gli indifferenti è come voler raccontare qualcosa di nuovo su I promessi sposi: anche del libro di Alberto Moravia è stato detto tutto, o quasi. Allora, perché ho deciso di scrivere un articolo – l’ennesimo – su un libro tanto popolare? Perché ci sono dei libri che ci cambiano la vita e a me questa cosa è successa solo in due occasioni: a venticinque anni con La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt e a diciannove con il romanzo di Moravia, appunto. Più che le trame di questi libri – che, diciamocelo, libri scritti bene, con una bella storia alle spalle, ce ne sono molti –, a colpirmi sono state delle frasi, delle parole dette in un momento della mia vita in cui avevo bisogno di sentirmi dire esattamente determinate cose: «La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta», da Dürrenmatt, quando avevo estremo bisogno di credere all’onestà della gente; e «Sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia», da Gli indifferenti.
Il tema del “cambiamento”, la necessità di voltare pagina e reinventarsi, non è nuovo nella letteratura, così come al cinema o in altri ambiti. Cosa accade, quindi, quando non siamo soddisfatti della nostra vita, quando sentiamo che qualcosa non funziona, eppure per abitudine, paura, mancanza di risorse – o, semplicemente, di coraggio – rimaniamo legati a certi ambienti, persone, schemi mentali? Succede che ci riduciamo come gli indifferenti moraviani, ossia ci limitiamo a esistere, consapevoli della nostra inettitudine, eppure incapaci di porvi fine.
Moravia colloca la sua storia nel microcosmo degli Ardengo, una famiglia borghese, ormai caduta in rovina, che tenta disperatamente di rimanere a galla: ci sono Maria Grazia Ardengo, i suoi figli, Carla e Michele, e altri due personaggi, coinvolti nel piccolo dramma privato, Lisa e Leo. Maria Grazia, Lisa e Leo sono gli “adulti” della storia, ossia coloro che ormai hanno preso piena coscienza del contesto in cui si trovano e lo hanno accettato, senza più chiedersi cosa sia giusto o sbagliato, morale o immorale. Carla e Michele, al contrario, sono giovani, sono a contatto con uno stile di vita e pensiero che percepiscono essere sbagliato, vuoto, banale: per loro si prospetta la possibilità di fuggire e ricominciare tutto daccapo. Il problema è, ce la faranno? I momenti favorevoli non mancano, le occasioni per mandare tutti al diavolo pure, ma i due ragazzi fanno sempre un passo indietro. Morale della favola? Malgrado lo sconforto del lettore, Carla e Leo rinunceranno a ogni forma di emancipazione, per entrare in pompa magna in quello stesso mondo tanto criticato e disprezzato.
Mi sono ritrovata spesso a pensare negli ultimi anni a quel “si cambia”: l’ho fatto, soprattutto, quando il mio percorso personale o professionale esigeva delle scelte profonde e radicali, eppure necessarie. La necessità la percepisci, anche se non la vedi, anche se non sai esattamente cosa e come sia necessario cambiare. Troppe volte si ha la tentazione di lasciare tutto così com’è, nella consapevolezza che non sempre i mutamenti comportano risvolti positivi, anzi: si sa sempre cosa si lascia e mai quello che si trova. Eppure, quando cerco di voltare le spalle e far finta di niente, o semplicemente arrendermi, ripenso agli indifferenti e mi penso: mi penso a fare cose che non vorrei fare, a dire cose che non vorrei dire, a celebrare qualcosa che non vorrei celebrare e magari denigrare quello che ritengo buono e giusto. Sono quei momenti in cui mi sento un po’ Cyrano de Bergerac, in lotta contro le ingiustizie, sempre pronta a rivendicare il mio diritto di rendere conto solo a me stessa. Quindi, in un moto di repulsione per ogni forma d’indifferenza, non mi tiro indietro e scelgo, cambio, sperimento il nuovo, provo e riprovo, come direbbe Beckett «fallisco ancora e fallisco meglio». Con il beneplacito di Gramsci e il suo odio per chi non parteggia.
(Elena Spadiliero)