Qualcosa che si poteva sbriciolare con le mani

L’autoradio gli comunicò che quel giorno sarebbe più o meno sempre piovuto, ma che poi, dopo uno o due giorni, sarebbe arrivato il caldo. Un caldo improvviso, che avrebbe colpito come uno schiaffo, dopo due settimane di “freddo anomalo”. Così disse il meteorologo.
Il rumore delle spazzole coprì qualche frammento di parola e procedette a ritmo cadenzato a fare il suo dovere. Il cielo era grigio; una particolare sfumatura di grigio, che lo riportò costantemente, con il pensiero, alla mèta che quel giorno, primo di maggio, aveva deciso di raggiungere.
Sentiva una strana mescolanza di stanchezza, inquietudine e eccitazione. La notte aveva dormito poco; o forse male: gli pareva di essere stato sveglio, ma la sveglia segnava le sette e trentasette, smentendolo. Si ricordava di aver sognato, ma gli veniva in mente solo un frammento: un pezzetto di quello che, ne era certo, poteva essere stato un sogno complesso e articolato.

Ricordava questa scena: l’ambiente era domestico, forse la cucina in cui la sera sua madre, suo padre e lui mangiavano; avevano l’abitudine di raccontarsi la giornata trascorsa: ognuno diceva la propria; il tutto durava pochi minuti, ma per lui, bambino, era il momento più importante del giorno. Quella sera però l’atmosfera era strana, anche se non ne capiva la ragione; ne era tuttavia certo, anche perché l’abituale resoconto era stato frettoloso e incerto.
Gli parve di scorgere qualcosa negli occhi di suo padre, un rapido sguardo rivolto a sua madre che poteva significare qualcosa tipo “ tutto questo per il lavoro”.
Le sue serate non prevedevano il resoconto come nel sogno, ma ricordava con piacere e nostalgia le cene con i suoi. Momenti semplici di vita quotidiana. Momenti di apparente sosta in cui c’era quasi sempre una specie di vibrazione nell’aria.

Aveva deciso di percorrere la strada statale per concedersi la possibilità di riflettere. Sembrava indifferente alla lentezza forzata con cui si attraversano i centri abitati e ne voleva, anzi, cogliere ogni sfumatura; non sapeva cos’era quella smania, quel bisogno di tornare, ma sentiva di doverlo rispettare, di offrirsi la possibilità di dare retta alla spinta emotiva che lo aveva fatto uscire la mattina presto di un giorno di festa, prendere l’auto e condurlo nel posto dov’era nato e cresciuto, da cui si era allontanato ormai da qualche decennio.

Il Veneto che conosceva meglio, quello tra le province di Vicenza e Venezia, era molto diverso, seppur uguale e indistinto in buona parte del tragitto: era il territorio dei campanili, delle piazze, dei capannoni in zona industriale: esclusi i capoluoghi, le coste, la zona collinare e montana, era tutto così. A tratti c’erano campi coltivati, qualche casa rurale abbandonata – in rare occasioni erano abitate, restituendo l’unica testimonianza di un tempo ormai scomparso, fagocitato da un progresso, troppo spesso barcollante e lasciato a sé stesso –

Ricordava con piacere le gite coi genitori, quando partivano dalla città e tornavano al paese; andavano a trovare i parenti che abitavano nella stesse montagne che il destino aveva voluto riservargli: c’era infatti tornato dopo essersi sposato e aver messo su famiglia; proprio là, in quei paesi dove i suoi genitori lo conducevano da bambino, e dove suo padre, durante le passeggiate, gli diceva di godersi il profumo dell’aria buona, e che lui respirava a pieni polmoni, in modo da averne una riserva per quando rientravano in città.

Man mano che si avvicinava alla città sentiva crescere uno strano disagio, misto ad allegria; ne percepiva il lavorìo interiore, che poteva sembrare quasi un solletico, o una carezza, a seconda dei momenti.
Nei decenni il confine con i centri abitati limitrofi era diventato impercettibile, fino a unire tutta la cintura urbana in un unicum di zone residenziali e centri commerciali che si somigliavano in modo imbarazzante. La città si vuotava di abitanti che in realtà si riversavano nel circondario, che un tempo aveva una sua precisa identità, smarrendola nel crogiolo cementizio del nord est.

C’era però un segno netto, l’unico, l’ultimo, a sancire il punto esatto in cui la città si differenziava dall’indistinta provincia: la zona industriale di Portomarghera, che rivolta verso la laguna, verso l’acqua, volta le spalle alla città di terraferma, pur essendovi profondamente innestata.

La pioggia alternava sfuriate impietose a quiete apparente, pur mantenendo il cielo grigio; non sapeva se era questo grigiore, questa alternanza ritmica, lo stare pienamente, senza distrazioni, al centro esatto tra nostalgia ed euforia, tra passato e presente: di fatto, aveva deciso di iniziare dal lato estremo di Fusina, e di infilarsi in quel mondo di acciaio, tubi, ciminiere, canali, cemento, cancellate, finestroni, vuoto, abbandono, silenzio.

Era davanti a una città nella città. Tutto quello che si vedeva era tutta l’area dell’industria chimica, era tutto o quasi Montedison.
Intravedeva il famigerato impianto del Cvm e anche tutta l’area dove una volta si faceva l’alluminio. Osservava la sezione superiore delle cisterne cilindriche bianche, che spuntavano dal muro di cinta, l’armoniosa dissoluzione estetica di quei parallelepipedi sporchi, immoti, possenti. Guardandoli gli sembrava che esalassero sporcizia impalpabile, e che questa gli si attaccasse addosso.
Pensava a quando era normale avere l’aria inquinata, a quando da bambino veniva qui in bicicletta a farsi i giri e c’erano le piogge acide, ma nessuno pensava agli effetti che potevano avere.

Lo scenario anche ora era unico e impressionante: la laguna e Venezia davanti, le fabbriche e il porto mercantile ai lati; entrambi frutto della genialità umana, espressa al meglio e al peggio del suo potenziale.
Aveva camminato un poco approfittando di un momento di pausa della pioggia cercando di quietarsi, di azzerare smarrimento e precarietà, di creare distanza tra sé e là, benché sapesse che in lui coabitava tutto questo. Crescendo qui ci si abitua alla bellezza maestosa e al degrado più ostile, cosicché non ci si sorprende di niente, e nessuno è mai troppo qualcosa, o troppo poco qualcos’altro, ma è quel che è.
Cercava parole per descrivere quel grigio dalle tante tonalità che spaziavano dal grigio-ruggine, al grigio-bianco; voleva scrivere un pezzo di diario e conservarlo e rileggerlo, con parsimonia, come si fa con quello che si ha di prezioso, e perciò raro. Non gli era facile stare in quella parte di sé che pretendeva equilibrismi disponibili soltanto quando era centrato, a proprio agio con la sua intimità, ferita e tenuta insieme da riparazioni posticce, come chiunque altro.

Capì, come un’illuminazione, che l’unica cosa da fare era camminare ancora e cercare di riempire un vuoto che si portava dentro. Gesti esatti, netti, seguendo il flusso ossessivo dei pensieri.
Si avventurò su strade, banchine e canali che non aveva mai visto, tra grandi serbatoi cilindrici bianchi, grosse tubature orizzontali e portali in chiaro stile littorio.
Sentiva forte un senso di straniamento. Percepiva la sensazione di universo chiuso come il carcere. Pensava a quando suo padre gli parlava della “bestia” che là dentro respirava in modo diverso e a come occorreva lentamente abituarsi a questo suo strano ritmo.

Il suolo scorreva sotto i suoi piedi. A malapena riusciva a tenere aperti gli occhi. Camminava tra pozzanghere, marciapiedi erosi, asfalto bucato, tratti di sterrato sassoso.
Guardando un’enorme cancellata si ricordò di quando suo padre gli raccontava che il petrolchimico da solo, aveva nove portinerie, che per muoversi all’interno c’erano i furgoni che li portavano da un posto all’altro, e che c’era sempre un’atmosfera sopra le righe tra gli operai; forse per contrastare quello squallore mortifero, si doveva ridere fino a giungere all’oblio.

Il silenzio avvolgeva tutto come uno strato oleoso, interrotto solo dall’arrivo degli aerei che raggiungevano l’aeroporto che stava dall’altra parte della città. Quando gli capitava di atterrare a sua volta, amava osservare le reazioni della gente che dall’alto osservava la strana conformazione della città; Venezia da una parte, la terraferma dall’altra: yin e yang: il tao che racchiude gli opposti e li bilancia, come non si potesse contattare un verso senza comprenderne la complessa composizione, soltanto in apparenza contraddittoria.

A un certo punto la strada era interrotta a causa di lavori, ma era stato aperto un camminamento attraverso un imponente capannone industriale in rovina. Per terra dominavano travi in ferro corrose dalla ruggine, scorie metalliche, colonnine in ghisa e casupole in ferro galvanizzato decorate con cartelli che pubblicizzavano riparazioni meccaniche. Poco distante si notava ancora la banchina della vecchia stazione carbonifera in gran parte del tutto abbandonata e semidistrutta.
Poi sentì un profumo familiare. Di sapone.

Verso sinistra si aprivano via delle macchine, via Galvani, via Volta, via della pila e poi tutto un susseguirsi di muri di cinta e capannoni, autorimesse, concessionarie e graniti colorati.
Era ancora evidente come il grande vialone, via Fratelli Bandiera, dividesse la fabbrica dal quartiere, ne segnasse la prossimità, alludendo a una mutua corrispondenza.
Da dov’era si notava bene il confine tra fabbrica e città, tra porto industriale e quartiere residenziale. Un rapporto di contiguità molto stretto che colpiva l’occhio e il cuore.
Camminò fino a un punto in cui il viale si restringeva all’altezza di una vecchia chiesetta che sorgeva direttamente sulla strada, la chiesa della Rana, dietro cui si stagliavano tre grandi silos con la scritta CIA.
Da lì provò a immaginarsi la crescita e la storia di questi luoghi. Immaginò Porto Marghera nei primi anni Cinquanta, al centro della “grande visione” dello sviluppo industriale italiano. Una crescita esponenziale fondata sulla metallurgia delle leghe leggere e sull’alluminio della Sava, sull’acciaio dell’Ilva, sulle raffinerie petrolifere dell’Agip e della Irom, sul settore energetico della Edison e sull’industria chimica della Vetrocoke e della Montecatini che proprio lì, davanti a lui, formò il polo trainante della seconda zona industriale. Una zona industriale anonima, banale, che ora appariva unitaria, compattata come un tutto in un’immagine fissa che non aveva niente di nuovo.

Pensò alla Montedison, dove aveva lavorato suo padre. Immaginò da lontano il grande stabilimento e all’improvviso cadde tutt’attorno a lui una pioggia grigia e insistente. Sopra la sua testa sentì un leggero rumore sordo. Un rumore asciutto, secco, di qualcosa che si poteva sbriciolare con le mani.
Tutt’a un tratto gli vennero in mente, uno dietro l’altro, dei nomi e delle immagini: quelle di Eugenio Cefis, di Mario Schimberni, di Raul Gardini, dell’Enimont e di Enichem, del Moro di Venezia, di Sergio Gori, di Giuseppe Taliercio, di Gabriele Bortolozzo, di Luigi Rocco, del PVC, polivinil cloruro, e del CVM, cloruro di vinile monomero.

(Cristiano Prakash Dorigo e Marco Crestani)

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