[Per la poesia, due]

«Non si ragiona di poesia!»

D’accordo. Lo abbiamo già detto qua e là. Ne abbiamo parlato anche troppo (troppo?); scritto, e con qualche risposta non sempre gentile. Abbiamo avuto in mente degli esempi: ognuno ha sempre in mente i suoi propri.
Una storia personale, di lettura e di scrittura, è una irripetibile rivendicazione di verità, e non avrei il coraggio di dire che è sbagliato. «Non è sbagliato.»
Scrivere è un atto di libertà; ma non lo è in assoluto, perché abbiamo sulle spalle (in memoria, insomma) un sedimento opaco, spesso imperforabile, che ci confina a ripetere il già detto, il già vissuto, il già scritto o letto. Avviene che si ripetano anche le sperimentazioni, che si ricalpesti il sentiero intricato delle avanguardie. O che non si sappia se mai ci siano state (ahimè, bisogna imparare tutto fuori dalla scuola?).
Scrivere poesia. Per definizione, e per coerenza, non posso avere parole. Se non sommesse, caute, personali. E soltanto sostenute dal diritto di uno che pur avendone scritte un migliaio ne ha pubblicate molto meno dell’uno per cento in età giovane e irresponsabile. Ho il diritto di chi non ha tediato, non ha consumato alberi né abusato delle amicizie. Sì, di recente, solo qualche testo in «righe corte, non versi», giusto per evidenziare gli elementi di una riflessione, sintetica.

Chi veramente vuole regalare poesia, lo fa a proprio rischio e pericolo.
Se non c’è rischio o pericolo, non lo faccia. Oppure se lo giochi come esercizio personale, per la sua segreta ferocia, o banale, verso il mondo, la vita e se stesso. L’abiezione verbale privata non segnala né manifesta confini.
Ma se vuol rendere pubblica la sua scrittura – e solo se c’è rischio e pericolo –, bèh allora si dovrà accettare che un poco se ne parli.
Chi tiene chiusi i propri cassetti, è saggio; chi li apre merita rispetto con confronto, insulti o amore, più o meno tempestosi. Deve decidere però ricordando, se può e se vuole, che «ogni nuova poesia nasce contro la letteratura» (André Breton).

D’accordo, abbiamo detto che non si ragiona.
Penso semplicemente che si debba sapere quel che si fa, e se ci si colloca dentro o fuori di quel “dire” straordinario che non imita la vita ma la inventa: non ci parla del già vissuto o sperimentato, ma di qualcosa che sanno solo i poeti.
È vero che molti altri hanno provato – come dire: patito – la stessa vita, ne hanno sperimentato i sogni, ne hanno calpestato indizi e memorie: tanto quanto i poeti, in media poco più o poco meno.
La distanza da loro, dai poeti, sta in altra fase della differenza, e della sopravvivenza il più delle volte negate; sta nelle parole – nelle parole: così è detto molto, troppo, in breve.
Ecco allora: c’è uno scontro titanico – diciamo meglio: asimmetrico – fra l’inventore di linguaggio e la realtà, che si ribella e non accetta di farsi esorcizzare, domare, inventare in parole. Lei teme di divenire ripetibile, nelle chiese, nelle osterie, nelle piazze, o in riva al mare, nei deserti, nelle scuole dei più piccoli bambini e sulla tomba dei vecchi.
Quando invece non è mai la ripetibilità, ma il canto più segreto e il grido più stridente che sono cercati da una nuova poesia.

Di poesia non si ragiona, è vero. Ma di un grande lampo, per il poco che dura, sì, si prova almeno, gridando: per la molta attesa.

(Bruno Pompili)

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