Non so se ci sia vita dopo la morte…
Di sicuro in questo caso c’è stata molta scrittura…


Intervista a Giuseppe Braga, autore di Ricordati dei fiori, Priamo Editore.
Dopo nove anni torni alle stampe con questo libro. Emozioni particolari?
Ti dirò. In questo lungo periodo mi sono accadute tali e tante di quelle cose che l’uscita di un libro, pur essendo un testo a cui tengo particolarmente, non può pareggiare. Penso alla nascita di mia figlia e alla morte di mio padre, tanto per restare in tema.
Quindi. Dopo tutto questo tempo, dalle scuole di scrittura e dagli esordienti scrittori di cui ci avevi raccontato nel tuo primo lavoro (“Ma tu lo conosci Joyce?”, Sironi Ed.), passi direttamente a un testo che gravita attorno alla morte di tuo padre e a ciò che è accaduto dopo. Sempre utilizzando un registro leggero, a tratti quasi comico, ma che allo stesso tempo va dritto al bersaglio senza mai girarci troppo intorno. Un bel salto, non trovi?
Il fatto è che io non mi sento un vero scrittore. Io riesco a raccontare solo ciò che mi capita. Certo, a ripensarci, avrei preferito continuare a scrivere di scrittori esordienti e di tutti i cacciaballe di cui è pieno il mondo dell’editoria. E invece m’è toccato scrivere di funerali e cimiteri. Un lato positivo però, tutto sommato ci sta.
Davvero? E quale sarebbe?
Be’, perlomeno qui, parlando principalmente di morti, sepolture e defunti, non avrò i grattacapi che ho avuto dopo l’uscita del precedente. I morti sono decisamente meno permalosi degli scrittori e degli editori, più o meno esordienti, più o meno a pagamento.
Ma scusa, hai per caso il dente avvelenato?
Oh! Non parlarmi di dente, per favore! Coi dentisti ho avuto un rapporto complicato, fin da bambino, quando, fidandomi di un’amichetta più grande, le affidai la mia incolumità, le diedi la mano e, correndo insieme a lei, finii a faccia in giù. Risultato: lei nemmeno un graffio e io invece tutti gli incisivi frantumati. Da quel giorno diffido sia dei dentisti che delle donne. Ma non posso fare a meno né degli uni men che meno delle altre.
Touché!
Già. Preferisco qualche stoccata, col rischio di provocare qualche irritazione, piuttosto che produrre melassa e carie dentarie, per stare in argomento. Le storie troppo zuccherose non mi sono mai piaciute. Neanche gli happy end. Anche se forse, sarà questione d’età, alla soglia della linea d’ombra che sto per attraversare (prego, nota il sofisticato gioco di parole), mi sto ricredendo un po’.
Va bene, ci ho capito poco, ma fa nulla. Torniamo all’oggi. Anzi no. Possibile che in questi nove anni tu non abbia scritto più nulla?
A dirla tutta, scrivere, di roba ne ho scritta. Ma ho sempre pensato fosse meglio non inflazionare il mercato, sai com’è. Qui scrivono tutti, ormai. Diciamo che mi sento più vicino a Kubrick che non ai fratelli Vanzina degli anni d’oro. Mi riferisco alla prolificità, beninteso, che non mi permetterei mai di accostarmi all’immenso Stanley… e poi nove anni fa eravamo tutti molto meno social!
Spiegati meglio.
Non c’è nulla da spiegare. M’è venuta così. Pensavo ad alcuni status di Facebook che mi capita di leggere e ai variegati cinguettii su Twitter. Ce n’è per tutti i gusti. Ognuno può esprimersi e tirar fuori lo scrittore che c’è in lui. Io per primo. Anche se poi, citando trasversalmente il buon vecchio Drugo Lebowski, preferisco ancora la carta al web.
Veniamo al libro, appunto. Il tema trattato, come detto, non è a prima vista digeribilissimo. Eppure tu ne riesci a dare una chiave di lettura originale e tutt’altro che pesante. Domanda seria. Quando lo scrivevi come ti sentivi?
Quando perdi un genitore, un pezzo di te si stacca. Come se si rompesse un organo vitale dentro il proprio corpo. Qualcosa che se ne va e che ti viene a mancare. Da quel momento in poi non c’è più. E non parlo in senso astratto. Il calore di quel corpo, il profumo della sua pelle, la consistenza dei suoi abbracci, il suono delle sue parole. Tutto viene a mancare. Tutto ti crolla davanti. Sono stati mesi colmi di dolore e di fatica. Con un senso di disorientamento totale. E la scrittura è stato il piccolo strumento che mi sono trovato per le mani, il veicolo per cercare di spiegare qualcosa di inspiegabile. Qualcosa con cui provare a distaccarsi, a districarsi, quel qualcosa che mi potesse aiutare a riaccendere la luce. Ricominciare a guardarsi intorno. Senza necessariamente voler dimenticare. Piuttosto elaborare, osservando tutto da una prospettiva diversa e inusuale.
I ricordi che peso hanno per te? Leggendo, in alcuni passaggi, sembra quasi tu abbia un rapporto al limite della morbosità. Sicuro che vada tutto bene?
Mi conservo gli scontrini e i biglietti del tram, figuriamoci il resto. Non riesco, non posso disfarmene. Mi rimangono appiccicati, nel bene e nel male. Che siano oggetti materiali o immateriali, poco cambia. Me ne sono fatto una ragione. La notte ci dormo sopra. E continuo, anche nei sogni, a ricordare di non dimenticare. Tutta materia buona, anzi, ottima, per la scrittura. Il resto lo lascio agli psicologi. Perché credo che tutto ciò che cerchi di mettere da parte, in qualche maniera, prima o poi ritorna. E i conti vanno fatti. Anche quando vengono sbagliati.
Ti definiresti una persona emozionale?
Be’, ecco, ci sono situazioni dove riesco, non so quanto abilmente, a nasconderle, o perlomeno, a lasciarle sottotraccia. Ma dentro di me ci sta un vortice, un maremoto quotidiano. Sarà banale, ma le emozioni sono il mio motore, la mia forza segreta. Quando ascolto Domani è un altro giorno della Vanoni, ma anche Strada facendo di Baglioni, tanto per dirne un paio, mi viene sempre da piangere. Sì, insomma, si smuove dentro qualcosa e mi commuovo. Non è una questione strettamente musicale, comunque, che quando guardo mia figlia Virginia dormire, mi succede lo stesso. E subito dopo ecco che mi scatta un click nello stomaco e mi risale veloce alle sinapsi. C’ho il pensiero necessario e urgente di esplicitare quello che ho sentito. Le emozioni si trasformano in energia e, quando gira bene, in frasi compiute. Clark Kent entra nella cabina telefonica. A me basta una canzone o il piccolo esile respiro di una bambina che si sta addormentando. Certo, lui salva l’umanità, io mi limito a battere qualche tasto sul computer.
Lasciando da parte i supereroi, come definiresti il tuo tipo di scrittura? Come sei arrivato a scrivere in questa maniera?
Probabilmente è un po’ la summa delle mie letture, da Topolino in poi. Ma anche gli incontri e le esperienze che ti regala la vita hanno fatto il resto. Ricordo che fu proprio mio papà (dopo avergli dato da leggere un racconto che avevo scritto e nel quale il protagonista, dopo esser stato lasciato dalla moglie, col padre in ospedale malato terminale, in una giornata grigia e piovosa, si buttava dal ventitreesimo piano di un palazzo d’uffici – non uno a caso, ma quello nel quale lavorava l’ex moglie) a consigliarmi di buttarmi (non dai piani alti di un palazzo) su un genere un tantino meno tragico. Forse l’ho preso troppo alla lettera, non so. Sta di fatto che crescendo, andando avanti, il mio modo di scrivere s’è fatto più lieve, meno serioso, più improntato verso un registro ironico e scanzonato. Anche Roddy Doyle e John Fante (per citare i primi due che mi vengono in mente) hanno aiutato. I risultati, ovviamente, non spetta a me dirli. Sia come sia una cosa è certa. Quando scrivo mi diverto un sacco e questa è una gran bella soddisfazione. Forse fine a sé stessa, ma per me decisamente piacevole.
Qualche aggettivo per inquadrare e definire meglio la tua ‘voce’, come dicono i bravi intervistatori.
Sghemba. Sghimbescia. Giocosa. Paradossale. Sorprendente (quando mi riesce). Prospetticamente rovesciata. Un po’ fuori squadra. Come le architetture di Frank O. Gehry, per intenderci. O le finestre della Torre Velasca di Milano. Non allineate. Una diversa dall’altra. Asimmetriche.
Già che tu sei architetto. Rapporti tra le due discipline?
La scrittura è un’architettura punteggiata di parole e congiunzioni. L’architettura la puoi comporre con una grammatica fatta di malta e cemento, di vetro e legno, mattoni e quant’altro. Ma di base direi che per entrambe le attività servono le idee e le intuizioni giuste. Senza di quelle non si costruisce nulla. Sono la forza motrice, la spinta decisiva. Il sale della vita, avrebbe detto l’ottimista poeta della pubblicità.
Nel libro ci parli di funerali, cimiteri e, più in generale, ti spingi a riflessioni sulla vita, ma soprattutto sulla morte. Pensi possa interessare ai lettori?
Non lo so. Aspetto che me lo dicano loro. Mi auguro soltanto che non sia una lettura mortalmente noiosa!
Se le battute son queste puoi proprio star tranquillo, vabbè… ma passiamo oltre. Raccontaci un po’ com’è nato “Ricordati dei fiori”.
L’ho scritto di getto, nei mesi che hanno seguito la morte di mio padre. Poi per tre anni è rimasto lì, chiuso nel famoso cassetto che ogni scrittore o presunto tale, da qualche parte ha. Avevo (ho) altri manoscritti e ogni tanto, senza particolari ossessioni – e lo dico con onestà, senza snobismo – provavo a proporli in giro. E con tutta onestà, aggiungo pure che non venivano presi in considerazione. Ma questo continuava a restare nel cassetto. Un paio d’anni fa mi venne l’idea di mandarlo (all’epoca aveva un altro titolo) a Emanuele Pettener, con la viva curiosità di sapere che ne pensava. Mi rispose con un entusiasmo che, inizialmente mi sorprese, e in seguito mi contagiò. Da quel momento, dunque, è partito tutto. La strada per la pubblicazione è stata piuttosto tortuosa, ma alla fine ci siamo arrivati. Grazie ovviamente anche a Marco Crestani.
Hai accennato al titolo, poco fa…
Il titolo potrebbe sembrare sanremese ma non lo è. E la foto di copertina (opera del bravissimo fotografo Federico Buonanno) è eloquente e leva ogni possibile dubbio. I fiori possono esser letti come metafora. Quale non saprei dire, però è senz’altro una metafora. E prima o poi riuscirò a esplicitarla. Il titolo iniziale era tendenzialmente assai molto parecchio più funebre. E siccome l’ultima parola, prima di dare il mio assenso alla pubblicazione – considerato il tema del libro mi è sembrato il minimo – l’avevo affidata a mia madre, e visto che a lei il titolo parecchio assai funebre non andava per niente a genio, ecco che l’ho cambiato. L’importante, titolo a parte, era che le fosse piaciuto il contenuto. E quello le era piaciuto molto.
Quando ci si espone così, come fai tu, raccontando situazioni familiari e intime, ci sono un paio di possibilità: o incoscienza o esibizionismo. Mi aiuti a trovare una terza via?
La chiamerei, senza voler sembrare uno spaccone, la via della condivisione. Quando il piccolo riesce a diventare uno strumento per raccontare qualcosa di più generale, be’, credo che sia una cosa – nel suo piccolo – molto bella. E più unificante e condiviso della morte di una persona cara, ahimè, non credo esista al mondo.
Domanda dalle cento pistole.
Spara.
Tuo padre avrebbe approvato? Gli sarebbe piaciuto?
Guarda. Non lo so. Anzitutto se non fosse morto, il libro non l’avrei scritto, mi par chiaro. E il confronto non si pone neppure. Restando al gioco, nel dubbio, sai che ti dico? Mi hai fatto venire in mente una cosa che potrei fare.
Sentiamola.
Andar lì, nella sua nuova casa, mettermi davanti col libro in mano e leggergli qualche brano. Secondo me se la riderebbe sotto i baffi. Oppure verrà qualche notte a tirarmi per i piedi. Il massimo sarebbe che mi regalasse qualche buon numero. Ma non posso chiedere tanto.
La carne e lo spirito. L’acqua e il fuoco. La fede. Dio. L’aldilà. Il dolore dell’assenza. Il peso dei giorni, in chi rimane. Il vuoto. Le ceneri e la terra. Ridendo e scherzando hai toccato temi fondamentali. Come avessi attraversato un tunnel buio sull’A14, contromano. Coraggioso, a modo tuo. Ti sei messo a nudo. Hai paura oggi?
A volte mi chiedo come sia riuscito a superare quei momenti. Vedevo solo nero, altro che tunnel. La scrittura è stato un mezzo, un aiuto decisivo. Crearsi dei mondi paralleli, non è un trucco da prestigiatori, ma una necessità dettata dall’istinto di sopravvivenza. Mondi paralleli, ma non per forza immaginari. Modificare la propria realtà. In qualcosa d’altro. Non più strettamente reale, ma pur sempre verosimile.
Parlavi di intuizioni, prima.
Non sono uno scrittore, l’ho già confessato all’inizio e non mi pento. Sono un raccontatore di storie. E racconto solo di cose (avvenimenti situazioni esperienze) che conosco bene. Non per questo credo di non esser dotato della sufficiente e necessaria fantasia. Esistono (e si possono seguire) infinite rette possibili, nelle quali perdersi. Anzi, magari ne ho molta di più di altri, se è per questo. Ma non son certo qui a fare il gioco di chi c’ha il getto più lungo. Ognuno, alla fin della fiera, è quello che è, e fa quello che gli riesce meglio di fare.
Banalità, ma pur sempre con un fondo di verità, ne convengo… ma da dove partono le tue storie?
Al principio c’è sempre un ronzio nella testa. Parte da un punto indistinto della periferia e mano a mano si fa sempre più centrale. Finché non diventa assoluto e non più rimandabile. In quel momento va tirato fuori e plasmato. Al meglio che si può. A volte ti dice bene, altre meno. Mica mi chiamo Ernest.
Hemingway?
Veramente pensavo a Oscar Wilde…
Il solito burlone.
Potessi vivere sulle tombe degli altri. Apprendere l’inesplicabile. Inseguire le chimere dei grandi Maestri. Imprimere col sangue pagine indimenticabili e immortali.
Ho perso il filo…
Ma no, cercavo di darmi un tono. Qualche parolone messo lì al posto giusto fa sempre il suo effetto in ogni intervista che si rispetti.
Facendo due conti, tua figlia Virginia (anche lei personaggio del libro) aveva meno di tre anni quando l’hai scritto. Ora ne ha otto. Cosa dice del suo papà che pubblica un libro?
Le ho fatto vedere la copertina. Le ho spiegato di cosa parla il testo. Credo sia curiosa anche lei di vedere come sarà. E un giorno lo leggerà, forse. Una cosa posso prometterla solennemente: non le infliggerò la lettura obbligatoria come ho invece fatto costringendola ad ascoltare i Beatles fin dalla tenerissima età… dopotutto resto un bravo ragazzo e un cuore ce l’ho anch’io.
Scrittura a parte, ti ritieni un tipo brillante?
Sono attratto molto di più dalle ombre. Preferisco la bellezza che si cela nelle oscurità.
Visto che mi ci porti: la morte è un tabù?
Credo lo sia di più l’invidia, come dico anche nel libro.
Davvero lo credi?
Un po’ invidiosi lo siamo tutti. Mostriamo le nostre facce belle in pubblico e poi, appena possiamo, giù con le pugnalate. Ma fatichiamo ad ammetterlo. La sincerità è un dono rarissimo. Io per primo. Ma colgo l’occasione per fare outing. Lo ammetto. Invidio un sacco di gente, io. Persino Moccia e Biagio Antonacci, figurarsi.
D’accordo, se lo dici tu. Per concludere. Una domanda semplice. C’è vita dopo la morte?
Non so se ci sia vita dopo la morte, ma di sicuro in questo caso c’è stata molta scrittura.
L’intervista è terminata. Vuoi lasciarci un’ultimissima parola?
Ricordatevi dei fiori. Ma soprattutto ricordatevi di andare a comprare il libro, mi raccomando!