Natura morta
Quand’ero ragazzo mi erano capitati sotto agli occhi, per caso, alcuni versi di Aldo Braibanti (il poeta Ruffilli mi correggerebbe sostituendo alla parola caso quella più fatale di necessità): di questa poesia che non ho mandato a memoria, come quasi tutta quella di altri visionari che pure ha attraversato la mia vita in modo sconvolgente, mi è rimasto impigliato solo un frammento. Mi accompagna da sempre: “… ed io mi riconosco negli occhi dell’amante come in un dado di melma impietrita”.
Braibanti, personalità di artista singolare, per i più ha avuto breve notorietà soprattutto a causa di uno strano processo penale, celebrato a suo carico nell’anno biforcuto millenovecentosessantotto. Un processo singolare, che potrebbe essere avvenuto nell’Atene classica. Un’accusa per “plagio” di un ragazzo, ai confini evanescenti tra seduzione intellettuale e amore vietato. Dunque, in altro contesto, la parola evocatrice, la parola semplice e profondissima, il verso che schiude una porta sull’infinitamente ricercato, quasi raggiunto ma definitivamente inesprimibile, contagia mirabilmente.
Da qui l’associazione spontanea, quasi una bolla emersa dai meandri dell’ignoto o da ciò che si credeva rimosso e invece era disponibile, mi riconduce al testo del poeta Paolo Ruffilli.
Proprio Ruffilli, in apparenza mediatore controllato e riflessivo della parola, si rivela pioniere nei meandri del Caos con il nuovo raccolto poetico di una stagione propizia ed il piccolo saggio racchiusi nel titolo Natura Morta. Quasi per contraddizione l’autore ascende all’emozione ineffabile attraverso la razionalità.
Natura Morta, titolo sornione che asconde un ossimoro evidente, è affidabile come un livre de chevet, nella forma più congeniale a Ruffilli: una poesia comprensibile e senza effetti speciali ricercati (ma che per sua forza naturale emerge potente). Sostenere che si tratta di un lirico, musicale continuo interrogarsi sul senso del mistero dell’esistenza, abusato tema che scuote ininterrotta l’umanità letteraria non meno che i comuni mortali, sarebbe far torto restrittivo alla novità insita in questa bellissima proposta.
Del resto è un tema ostico, rischioso, questo scelto dal Poeta, per gli innumerevoli precedenti dagli esiti spesso scontati. Ma qui la ragione penetra intimamente nella carne, non si esaurisce al chiudersi del verso, evolve in una germinazione spontanea esclusiva che procede per sottrazioni, per allusioni.
La dimensione del tempo è consistente ed elastica, stato esperienziale che assume colorazioni diverse e proprie. Soprattutto non è mai un semplice contenitore di fatti, è esistenza determinante. Così per il poeta, come per l’amato Pessoa, dove la poesia è lo stato ritmico del pensiero: il tempo è il senso/ e il ritmo del caso/ e il caso è un nome/ della necessità. L’uomo per sua natura non ha ali e il suo sguardo corre rasoterra, ma qui sta il grande dono (o anche la maledizione innaturale) di cui dispone. Lo sguardo umano si fa subito distante, trabocca e spande: resiste alimentandosi/ da quel che nel profondo/ emerge, e sente/ di essere straniero…/l’altrove, il cielo…/ il trascendente… Paolo Ruffilli sa benissimo che non possiamo chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, ma contrappone a questa disarmante verità l’altrettanto disarmata, ma orgogliosa facoltà prometeica che, preso atto dei limiti umani alla conoscenza del senso e del destino, tenta di ridare ordine e una traccia sul significato al Mistero con l’unico mezzo di cui dispone. Attraverso il linguaggio, l’universo altrimenti prescindente, si rende tangibile almeno in parte e rappresentabile. La parola estrae dall’Infinita Miniera le cose per darne umano significato, prova persino a circoscrivere i sentimenti: i mezzi sono già in partenza spuntati, ma l’opera che compie l’uomo, dal preistorico lallare balbuziente alla moderna parola strutturata, anche con l’ausilio del computer, ha lo stesso significato di una Creazione sofferta. E’ molto di più che non una convenzione per comunicare: qui si mette al primo posto un ruolo impudente, forse, ma predestinato e dignitoso. Troppo ardita è altrimenti la pretesa di “possedere” le chiavi di una interpretazione che ci sfugge. Traspaiono appena altre tracce che potrebbero essere inquietanti, occorre accettarne virilmente la fisiologica stranezza.
L’autore fa propria la constatazione che l’ordine dell’universo e il suo movimento inarrestabile sembrano obbedire al supremo principio di contraddizione: non conta nel rilievo,/ ma nella cavità/ di breccia dilatata/ nel vano della porta,/ nel moto dell’ombra/ proiettata senza posa/ su dal fondo./ Di non essere/ è impastata ogni cosa/ e la sostanza del mondo/ scivola sul vuoto./
Non ci sarà alcuna vita senza morte corrispondente, così come il vuoto, per presagita legge eterna, deve corrispondere al pieno: spogliati dal dolore per ciò che ci appare negativo in un ambito ristretto, la visione allargata (anche nel processo inverso dall’infinitamente grande alla consapevolezza dell’illimitata dimensione del microscopico) ci può restituire una nuova laica speranza, a patto di riconoscerci per quel che siamo: cellule di un Organismo più completo che trascende la nostra umanità e si trasforma da sempre e per sempre.
Paolo Ruffilli dedica pagine affascinanti proprio alla suggestione del vuoto, del silenzio, alla bellezza della sottrazione, del non detto. Silenzi e assenze necessari, evocativi di remote consapevolezze che emergono per forza gassosa e per il funzionamento arcano della nostra mente. In fondo è anch’essa inconoscibile, essa stessa è parte del Mistero: regno ambiguo dei sogni, ma anche scrigno per le sovrapposizioni dei ricordi, delle letture, del vissuto sedimentato.
Con una operazione spiazzante, vero scarto letterario, nella seconda parte di Natura morta il poeta si fa censore del proprio ardire: gli argomenti fino ad ora trattati sono fin troppo alti, entrano nella giurisdizione del diavolo con la filosofia. Ecco allora un precipitoso rientro verso un poetare umile, quasi minimalista. A ricordarci che siamo carne e sangue, viviamo di cibo e ossigeno, produciamo escrementi: ora la poesia diventa precetto per la dieta sana, breviario dei pericoli corporali con l’elencazione dei rimedi pratici alle indisposizioni, promemoria delle buone consuetudini di igiene per mantenersi. Paiono composizioni ripescate dalla tradizione latina, quasi ingenue, o dalla monacale sapienza medievale, confacente agli uomini comuni che non potrebbero guardare al cielo, se prima non abbiano considerato la propria fragile, fisica presenza su questa terra: una specie di mens sana in corpore sano.
Gli appunti per una ipotesi di poetica, il breve saggio che conclude la raccolta, sono una vera lectio magistralis dove si dispiega il pensiero teorico del poeta, ma alla maniera godibilissima di Ruffilli: un concentrato di suggerimenti, di cui appropriarsi per un contatto onesto con la poesia, conformato all’esigenza di fuggire la retorica e gli olimpi artificiosi. Si approda, per lineari percorsi sul filo della confidenza, a sollecitazioni intellettuali notevoli, come la citazione da Barthes: “il naturale è sempre un’illusione” e che Ruffilli chiosa in modo impareggiabile con una intuizione felice: l’uomo, da sempre, è astrattista e simbolista anche quando non lo sa.
(di Roberto Masiero)