M
Il treno arrivò alla stazione di M quando ormai era già buio.
Di pomeriggio avevamo attraversato la pianura, visto villaggi nascosti dalla nebbia, campanili silenziosi, uomini a cavallo. I cavalli erano piccoli, con il pelo chiaro. Gli uomini li cavalcavano stando curvi in avanti, quasi sdraiati sul collo delle bestie. Si facevano guidare dai cavalli e tenevano gli occhi verso il basso, come se cercassero qualcosa di prezioso, di importante, che dovevano trovare ad ogni costo per evitare una condanna da scontare in un luogo peggiore di quello, più freddo e gelato, dove la neve sarebbe stata così alta che di loro, e anche dei cavalli, si sarebbe intravista soltanto la testa mentre avanzavano lungo la pianura, lentamente, scavando sentieri profondi a furia di zoccoli e fiato pesante.
Da dove arrivavano quegli uomini? Dai villaggi che indovinavo in lontananza? Da una caserma? O da tane scavate nella terra, in cui passavano la notte assopiti dal calore dei cavalli? Avanzavano dondolando nella nebbia e lasciavano che la testa ciondolasse qua e là, come il pendolo di un veggente da fiera.
«Non si faccia ingannare dai cavalli», disse l’uomo che avevo di fronte. «Non sono soldati, sono pastori.»
Accanto a lui c’era una donna piccola e magra, con i capelli neri, un cappotto vecchio e consunto che puzzava di cavolo e cipolla. Sulle ginocchia una piccola valigia di cuoio marrone. Sembrava addormentata.
«Non si faccia ingannare dai cavalli», ripeté l’uomo. «Non sono soldati.»
Forse non si trattava di una frase, ma di un intercalare. Cominciai a sentire caldo. Nello scompartimento, l’aria era diventata asciutta e soffocante. Dai sedili di cuoio veniva un odore dolciastro di fumo e di urina che provocava una lieve vertigine. Mi alzai e uscii nel corridoio. Accanto a un finestrino vidi un uomo che fumava. Mi salutò con un cenno della testa e mi mostrò il pacchetto delle sigarette.
«Grazie», dissi, prendendone una.
«È solo una sigaretta», disse l’uomo.
«Nulla è mai solo una cosa», dissi io.
L’uomo sorrise. Rientrai nello scompartimento. Per terra c’era un libro. Lo presi in mano e guardai le prime pagine. Era un libro di una ventina di anni prima. Il nome dell’autore non era riportato e quello dell’editore mi era completamente sconosciuto. Misi il libro sul sedile e guardai dal finestrino. Il sole tramontava. La pianura era deserta. Gli uomini a cavallo erano scomparsi. Anche i villaggi che vedevo sullo sfondo avevano qualcosa di diverso. I campanili erano tozzi, le case basse, a un piano.
Nello scompartimento si accesero le luci. Mi sedetti. Il buio di fuori e la luce di dentro trasformarono il finestrino in uno specchio. Nel vetro vedevo la mia faccia. Qualche volta mi sembrava che il riflesso fosse più lento o più rapido di me. La luce e il caldo mi fecero chiudere gli occhi. Sentivo il respiro pesante dell’uomo seduto di fronte, ogni tanto mi arrivava la scia del suo fiato, che sapeva di vecchiaia e di fegato. Poi non sentii più nulla e quando riaprii gli occhi vidi che la donna con la valigia era scomparsa. Doveva essere scesa in una delle piccole stazioni che si trovano in mezzo alla pianura e dove il treno non fermava mai.
Mi riaddormentai. Sognai. La donna con la valigia era mia madre ed io avevo all’incirca dieci anni. Eravamo seduti ad un tavolo e mangiavamo zuppa di cavoli da scodelle marroni. Poi lei si alzava, metteva le scodelle in una bacinella piena d’acqua sporca e usciva dalla stanza. Per un po’ non la vedevo più e io, intanto, osservavo le pareti della stanza. Erano grigie, sporche di fumo, solo sulla parete alle mie spalle era appeso un piccolo quadro. Non era un quadro, era una fotografia: una fotografia di mio padre vestito da soldato. Senza averlo mai saputo prima, mi fu chiaro che mio padre era morto. Morto in guerra, e mia madre non lo sapeva ancora. Subito dopo, quando mia madre rientrò nella stanza, sapevo che mio padre era vivo.
«Tuo padre è morto», disse allora lei.
«Tu non sei mia madre», dissi io, alzandomi dalla sedia. «Sei soltanto la donna con la valigia.»
«Nessuno è soltanto qualcuno», disse la donna con la valigia. Ma non era più la donna con la valigia, era l’uomo nel corridoio del treno e io non avevo dieci anni, ma quarantasette.
«Perché non è sceso alla stazione di C?«, mi chiese l’uomo.
«Perché vado a M», risposi.
«M non esiste», disse l’uomo del corridoio. La sua faccia, illuminata dalle lampade del treno, aveva un riflesso arancione e il fumo di sigaretta che gli usciva dal naso scivolava verso il basso come se il pavimento lo attirasse.
«Mi offra una sigaretta», gli dissi.
«Lei non fuma», disse lui.
«Come ha detto che si chiama?», domandai.
«Nessuno», rispose.
«Allora è lei che doveva scendere a C.»
«Non si faccia ingannare dalle sigarette. Non sono un soldato», mi disse.
Poi si voltò e si allontanò verso il fondo del vagone. Le luci del treno si spensero. Dal finestrino si vedevano i villaggi spuntare come piccole candele. Tornai nel mio scompartimento e mi sedetti. Chiusi di nuovo gli occhi.
Quando li riaprii, ero arrivato a M.
(Racconto di Stefano Bandera)