L’ottica di Polifemo, il chiacchierone
Per un tempo senza misura tutti noi stavamo a guardare il mare, indistinto dal cielo, senza punti neri di imbarcazione né schiume bianche di onda.
Egualmente passava un tempo lungo quando il vento agitava le acque e sibilava fra gli arbusti; ma allora più facilmente tornavamo a pensare al gregge, a guidare gli altri animali al riparo nelle grotte.
Alle spalle avevamo sempre il pensiero e la minaccia delle gole di fuoco, i tuoni e i macigni volanti che uscivano dalla montagna rovente.
Non avevamo, e io non avevo, esperienza di piccoli esseri, veloci e fastidiosi, uomini.
Quando arrivarono, preferivo, e lo dissi, che non fossero venuti; cercai anche di dissuaderli e indicai una più ospitale isola, forse felice, dove trovare un approdo facile. Noi non ne avevamo, né avremmo mai pensato di costruirne.
Parlottarono a lungo fra loro e presero terra, in un momento in cui dovevamo pensare agli animali, così li trascurammo, sbagliando.
Com’erano venuti, alla fin dei conti se ne sarebbero andati, borbottò Beronte che sempre stava a disegnare piani di una città che voleva fondare: aveva quest’idea piantata in testa, quando invece le nostre grandi grotte, ventose e miti, andavano così bene per i nostri bisogni.
Io l’avevo sistemata al meglio, la mia caverna. Non ero mai d’accordo con Beronte, ma non ne facevo, né io né lui, un problema; perché poi era un buon vicino; potevi chiedergli cibo e acqua in qualsiasi momento di pace o di vento.
Si era diffuso fra di noi, in quanto si viveva separati e anche lontani, il sentimento di una infrangibile separazione. Anche con le nostre femmine c’erano allora incontri rari; a ognuno piaceva un proprio ritmo della giornata, e persino una solitudine: per osservare il mare, il monte, gli animali; ascoltare i rumori, respirare controvento; incontrare con riservatezza le nostre compagne, a volte passando lunghi intervalli a guardarci nell’occhio, la sera.
Erano arrivati quegli uomini borbottanti, sempre agitati e frenetici; strane figure, piccole e per certo fastidiose. Non ne volevo sapere e dissi chiaramente a loro e ai miei amici che dovevano andare da un’altra parte; che era meglio, soprattutto per loro. Sicuramente per me, per il mio spazio, e gli animali che tenevo intorno.
Questo fu uno degli ultimi litigi con Beronte; ma con lui erano d’accordo quasi tutti gli altri, e lo dicevano, gridando lungo i fianchi della montagna, facendosi eco dalle caverne. Stetti zitto, però osservavo. Non mi andava per niente che quegli uomini facessero la posta alle mie pecore. Potevo anche regalarne, ma non che me le portassero via di nascosto.
Lo dissi, ma pare che non mi capissero. Forse perché avevano quella faccia stupida, senza occhio e con quelle due fessure con dentro due palline: saranno state i loro occhi, credo, inespressivi comunque.
Ed erano disuguali, alcuni pelosi, altri lisci, alcuni con dei ferri altri con legni, vestiti quelli che più parlavano e dicevano cosa fare, nudi gli altri; e senza femmine.
Tanto piccoli cosa avevano mai da dire.
Potevo arrivare a un accordo; avrei dato, purché se ne andassero. Dall’isola. O andassero da Beronte, che si capiva meglio con gli estranei. Non sopportavo neanche le loro manine, quelle appendici alle braccia tanto corte, benché, complessivamente, nel loro piccolo, potevano avere una certa dignità, una specie di figura. Ma insomma insignificante.
Provai a dirlo con le cattive, e un po’ si spaventarono.
Ci fu anche quell’incidente: che senza volerlo ne calpestai uno, e non si muoveva più; molti scapparono o si nascosero facilmente. Per meglio farmi capire cercai di prenderne, e sarò forse stato esagerato nell’impegno. Un altro paio restarono immobili, in mezzo a grida che mi arrivavano bene, quelle. Erano veramente agitati.
Fu allora che per calmarli e trovarci fra di noi, metterci d’accordo su qualcosa, chiusi l’ingresso della caverna.
Non ci siamo capiti neanche questa volta.
Solo quando offrii del cibo le cose si acquietarono. Formaggio solido, una vecchia focaccia, del latte se ne volevano, e liquido fresco di uva, poiché era la stagione.
Alla fine anch’io mi misi tranquillo, mangiai più del solito, avevo anche una grande sete, che non passava con niente.
Tutti dormimmo. Loro perché molto stanchi, io per aver troppo mangiato e tanto bevuto.
Al mattino erano scivolati via come rettili, poiché non li ho più visti per un intero giorno. O si erano nascosti. O volevano altro.
Ero ormai entrato nella considerazione che un paio di giorni e due notti potessero restare.
Il nuovo fastidio era quella paura costante che mostravano; non capivo se scappavano o se mi correvano incontro, se rubavano o se gradivano.
Passarono da me Aurilopo, Predipolo, Idrocolo, Synodoulo per vedere come stavo, ma non c’era nessuna ragione di preoccuparsi; quella cortesia mi inquietò: forse sapevano qualcosa che io non sapevo e non mi hanno detto.
Chiacchiere se ne facevano sempre, e debbo non aver dato peso a qualche allusione a forze superiori alle nostre, a degli dei che non avevamo mai visto ma si facevano sentire, non con me, questo è certo. Era questo il problema? Erano protetti quei piccoli uomini? E io cosa c’entravo; certamente ero stato rude, ma ospitale per quanto possibile, secondo quanto previsto dal tempo e dal nostro carattere. Sì, posso ammettere di essere stato, come dire, corposo.
Ero del tutto indifferente a quegli estranei. Non ci vedo una colpa. Ma alla fin dei conti, essere trattato così, dileggiato, perché!? Dovevano avere avuto altri problemi, precedenti, con qualcun altro; qui, sì, qualche insulto ce lo metterei. Mandarli non so dove, se non fosse che già se n’erano andati. Ho tirato qualche pietra, di quelle pesanti, ma sapevo che non li avrei raggiunti: capii che stavo facendo un esercizio di pura immagine, se è così che si dice. Dovevano ricordarsi che qua ci sto io, nel bene e nel male.
La mia curiosità è su cosa mai potranno raccontare quando arriveranno a casa loro, se ce l’hanno, se hanno un’isola, una montagna. Poiché sempre parlottano, sicuramente raccontano.
Insomma c’è stata una piccola distrazione nella quiete di questo luogo, e mi vien da ridere sulla lontananza fra quel che dico e quel che non so, che non posso immaginare, che loro diranno. Questo mi dà un poco da pensare, ma lo dimenticherò. Non è tanto importante.
Avevo gridato per spirito di parte, per gioco e bandiera. I miei amici si spaventarono, mancanza di abitudine. E mi chiesero chi mi facesse del male. In realtà nessuno mi faceva niente, erano già scappati, piccoli e spaventati. E io che gli tiravo dietro le pietre.
Avrei anche riso di più, e non avrei tirato macigni, se non mi avessero offeso; oltre che piccoli anche stupidi, eccetto quella strana aria di sfida e quella inspiegabile figura di superiorità tutta presunta. Strana gente, e tanto meglio che se n’erano andati. Pecora più, pecora meno.
Sì, un po’ infastidito. Che ragione c’era di tirarmi addosso di tutto. Un sasso vicino all’occhio, che per poco non mi beccava nel mezzo. Un paletto quasi dritto nell’orecchio. Cercavano la testa, evidentemente; secondo me gli tremava il braccio.
O cercavano punti molli per ferirmi, la pelle era troppo dura per la loro forza.
Nella concitazione mi presero con un rametto nell’altro buco morbido. Mi diede un sussulto a tutto l’intestino, un dolore che non conoscevo. Mi bloccò per un istante, il tempo di pensarci, il tempo di passare, il dolore.
Ormai erano lontani. E forse non avevano capito niente.
Non vennero subito i miei amici a trovarmi, perché sicuramente c’erano degli impegni, lavori nei campi e nei recinti.
Quando fu, ridemmo raccontando. In questo sono sempre stato il più bravo, come dice il mio nome.
Gli uomini, un punto nero nel mare. Passerà del tempo.
(racconto di Bruno Pompili)