L’insonnia di Cassandra
Ha cominciato molto presto ad avere dubbi se sia un bene dire la verità.
«Ricordati che non devi mai mentire.» Rimbombano le parole di sua madre; e la zia che scuoteva la testa per approvare.
«C’è bisogno di tutto nella vita, anche di qualche bugia.» Le parole dello zio, e suo padre che annuiva; a precisa domanda non sapevano però concordare una differenza fra menzogna e bugia.
Da sola Cassandra stabilì la diversità: la menzogna era quella che non l’avrebbe lasciata dormire; con la bugia era solo un poco inquieta al momento di far spegnere il fuoco; avrebbe voluto tenere una piccola torcia, benché facesse fumo e cattivo odore. Per queste bizzarrie manifestate prima di prender sonno si era diffusa l’idea che era una ragazza sensibile, perché gli incauti e gli sciocchi non sapevano quali visite mentali le arrivavano nella notte.
Cassandra non voleva che le occhiaie esposte alla luce del mattino parlassero al posto suo, dicendo per di più notizie approssimative. Voleva tanto dormire, senza pensare più al futuro, che mandava immagini solo per lei ovvie; cercava di fissarsi sul passato, perché già il presente la disorientava.
Il problema prese corpo. Appena parlava si faceva silenzio tutt’intorno; tutti stavano attenti alle sue parole, per ricavare una verità che nessuno veramente capiva, ma da quel momento ognuno la formulava secondo le proprie paure o i desideri. Con sorpresa si accorse che gli altri prendevano avanzi di frase e li rovesciavano sulla loro propria storia senza che lei ne avesse parlato, né la conosceva. Sapeva per certo di non aver detto quasi nulla, e proprio per niente quel che le ritornava indietro, a eco; anche un balbettio diveniva una estorsione, così limitò al massimo ogni parlare, fin quando il suo silenzio fu scambiato per scontrosità; nessuno la difese, né in famiglia né fuori.
La scelta del silenzio era la soluzione giusta per dormire, ma fu allora che Cassandra cominciò a percepire l’odio tutt’intorno, perché lei era destinata a dire la verità; di nuovo le veniva rubato il sonno. Ormai era così nervosa che agli occhi di molti, nelle chiacchiere dei soldati, nella notte delle osterie e dei postriboli era considerata del tutto folle. Anche nei palazzi, con più discrezione; ma lì si studiavano i possibili interventi, per darle una misura.
Non le mancava la voglia di parlarne con qualcuno, che però non c’era. Doveva evitare i parenti per non dir loro cose orribili. Nessun altro aveva voluto avvicinarla per affetto, amicizia o passione: nulla; non era neppure desiderata, benché di armonici complementi ne avesse; se li vedeva addosso, e in un passato non remoto diversi glielo avevano anche detto. Tutto questo, ammucchiato insieme in un disordine invadente, riempiva la sua insonnia di immagini confuse, il cui unico senso era angosciato. Tuttavia era lì che vedeva le verità del futuro.
Doveva forse smettere di vivere per sfuggire. La somiglianza col sonno era attraente.
Senza che ne sapesse il perché fu presa da un lungo silenzio, nel corso del quale dormì. Da lei non usciva più nulla, e questo fu accolto con sollievo.
Il silenzio era accettato da tutti meglio dei monosillabi, di qualche frammento di discorso il più delle volte incomprensibile.
Vivere isolata era diventata una consuetudine; conveniva sia al suo sonno che alle preoccupazioni di chi la conosceva ma non sapeva come parlarle, o come considerarla.
Cassandra si ritenne contenta, con una vaga idea, sufficiente, di cosa sia la felicità. Solitaria, ma felicità.
Essendo ancora molto giovane i cambiamenti erano alla porta di ogni giorno possibile. Anche il mondo cambiava, per conto suo, o degli altri. Non solo il mutare delle stagioni, ma proprio il poco che conosceva era in evoluzione, il territorio del suo paese, le isole in lontananza, i boschi alle spalle della città, i rumori terribili delle guerre quando vicine quando lontane, lutti, racconti che entravano nella sua casa. Non poteva non capire, né frenare il suo commento, o tacere le sue paure e i desideri. Anni complicati rimbalzarono nei suoi sogni, divennero voci acute che si sentiva di dover ripetere, senza scampo.
Di nuovo non dormì, senza capire ancora perché ricominciarono in molti a parlare di lei. Per riflessione dedusse che senza averne consapevolezza proprio lei doveva aver parlato per prima, ma non ricordava nessuna delle proprie parole; certamente le erano sfuggite fra sonno e veglia.
Aveva dimenticato di aver già vissuto tanta confusione; forse per questo ora le sembrava peggio. Non solo non dormiva, ma aveva visioni, incubi anche nel dormiveglia. Voleva sfuggirlo, però la stanchezza la tratteneva in quel luogo senza tempo, non la lasciava entrare nel sonno: ne avrebbe accettato le immagini pensando di svegliarsi e vederle svanire, invece lo stato di dormiveglia non le dava speranze di tornare se stessa, perché già lo era.
Forse non tutto stava esattamente così, ma la confusione era sempre più avvilente, la sterilizzava; non aveva desideri se non del silenzio totale, dell’assenza, e fosse questa pure simile alla morte.
Accettò lo stato confuso che le era toccato, cercando almeno di non ferire, di non turbare. Di conseguenza apparve remissiva, in tal modo più facilmente oggetto di insulti mormorati a fior di labbra, o di parole lanciate per aria come se non fossero per lei; invece capiva chiaramente che si riferivano al proprio disagio. Nessuno che si impegnasse a misurare il fatto che non dormiva da tanto tempo. Pure lei ammise che non poteva essere quella l’unica ragione delle sue grida soffocate, né delle sue immagini nascoste né delle parole non dette. Ma altro? Cos’altro?
Cassandra non riuscì mai a memorizzare il ragionamento seguendo il quale aveva preso la decisione convinta di lasciare infine libera strada alle parole; le sembrò sempre che si fosse trattato di un lampo, non di un percorso. Era naturale ed era scritto. Così sembrò a tutti.
Avevano sicuramente parlato fra di loro, gli altri, poiché nessuno venne a porle vincoli o condizioni, che non avrebbe comunque accettato; ma ormai l’atteggiamento più diffuso nei suoi confronti era diventato quello della tolleranza, cioè lasciarla dire e non darle importanza.
L’umiliazione che le proveniva da semisorrisi di compatimento, o dal far finta di non sentirla, lasciandola a borbottare da sola agli angoli dei giardini e delle strade, era accettabile poiché lentamente si accorse che cominciava a riposare se non proprio a dormire. Scompariva soprattutto il dormiveglia, un confine che nessun dio protettore controllava, tanto che in quel momento le sembrò un bene.
L’accordo, piuttosto un generico convenuto, era stato preso naturalmente senza la presenza di Cassandra, per evitare commozioni, dissidi, contrapposizioni, o rischi di rivolta nervosa, anatemi estremi e incontrollati, che ormai erano molto temuti; perché qualcuno cominciava ad aver paura di quella donna insonne, a volte scarmigliata, a volte impeccabile, delicata, dura e orgogliosa, bella, molto bella quanto respingente.
Fu lasciata circolare ad arte l’informazione che era bugiarda, non pazza. Occorreva essere pazienti, e chiunque avesse manifestato ostilità o anche insofferenza sarebbe stato punito. Cassandra meritava rispetto, la vera comprensione era per tutti certamente più difficile.
Come dirlo: dissero che obbediva ad un bisogno irrefrenabile di mentire, sulle grandi cose, sul futuro; questo era facile sostenere perché su quella distanza, su complicati argomenti, la menzogna non era controllabile per nessuno. La si poteva dimenticare nel tempo, senza danno. Le piccole bugie – era questa una riprova, per quanto ingenua – si sa che vengono scoperte subito, e potevano passare per stranezze infantili, come se Cassandra non fosse ancora cresciuta.
Il suggerimento era sbagliato. Nessuno poteva considerare una donna, così bella per la stanchezza, a volte anche maestosa, come una bambina insipiente e capricciosa, incontrollabile dai suoi. Per forza di cose, nella mente di molti passò ormai la figura di una pazza; nelle persone del popolo dominò quella di una dea divenuta donna a causa di una qualche misteriosa punizione; più di frequente, fu una viziata, una viziosa, molto altro che per un rimasuglio di rispetto – molto astratto, è vero – andava taciuto e non doveva filtrare. Pena l’esilio, fu anche detto; per indegnità: difficile da capire.
Pur con tante contraddizioni tuttavia lo sforzo di protezione funzionò. Cassandra, come a ogni cambiamento che la distogliesse dal suo bisogno, si acquietò in uno spazio d’improvviso vellutato.
Le donne anziane si organizzarono e fecero in modo di metterle accanto un uomo. Un uomo di prestigio, giovane, forse troppo giovane, che, si sapeva, aveva sempre guardato Cassandra. Con modestia, non aveva osato una sola parola.
Cassandra, per delicatezza, per rispetto, lo fece allontanare. Aveva avuto una di quelle sue sensazioni pericolose, un’immagine ambigua; voleva dunque sfuggire ad ogni malinteso. Sapeva che lo avrebbe ucciso, e non volle.
Ne favorì una missione delicata, presso un popolo amico. Nel corso del viaggio fu ucciso in una imboscata, insieme alla sua guardia. Questa non era però una delle sue previsioni, era una casualità. Ma ci pensò. Capì che non doveva opporsi, non poteva, a quel che vedeva.
Poteva solo cercare il silenzio, con i suoi costi, le sue pene, la solitudine ben conosciuta, fin quando almeno le grida dei suoi sogni non allontanassero il sonno troppo a lungo.
La pace del mondo attorno al suo paese, dentro la città, bloccò la sua vita, addolcì il rimorso per quella morte in un sentimento di pietà verso l’uomo che l’aveva ammirata; lo rimpianse, ma sapeva che l’avrebbe ucciso, così un vero silenzio la trattenne nel sonno.
Le poche parole che ne filtravano fuori parlavano male, eppure lei quasi non lo sapeva; ne aveva un vago sapore di stomaco, in fondo alla gola. Sarebbe stata quasi un’abitudine ormai, da sopportare come una malattia che ti colpisce da bambina e ti lascia dei segni. L’origine del malessere, l’inizio, ad ogni buon conto viene sempre tenuto nascosto. Per scelta restavano nascoste le sue allucinazioni recenti, tanto più che erano del tutto incredibili. I più saggi le considerarono solo improbabili.
Intanto, il mondo che si chiude, per paura di allargarsi o per pressioni esterne, per confini invalicabili, in più la perdita della curiosità che riduce i viaggi enfatizzando i pericoli in lontananza, favorirono la memoria.
Le fantasie di Cassandra non venivano però dimenticate; al momento opportuno, o per disegno o per caso, tornavano nei discorsi di chi le aveva sentite una volta; per un istante apparivano attuali, come piccoli lampi di paura subito scacciati.
Il tempo aveva attenuato le responsabilità che all’inizio le venivano rinfacciate, come se Cassandra fosse stata lei stessa la causa degli eventi; si era capito infine che aveva solo delle visioni, che erano insensate e non bisognava crederle.
Continuavano tuttavia ad essere tenute in mente, poiché lei continuava a vivere, si doveva aspettare: per capire ora come aveva parlato un tempo; era dunque per valutarla, o insultarla, o odiarla, o in qualche chiacchiera anche ucciderla. In ogni caso si voleva vedere, ma non tutti erano così, come sarebbe andata a finire.
La maggior parte temevano la verità e preferivano crederla una menzogna. Col tempo, sempre col tempo, nessuno più credette che fosse una semplice bugiarda, neppure si pensò più alla sua follia. Qualche evento marginale fece pensare a qualcosa di diverso, fino ad allora mai detto. Cassandra aveva previsto con angoscia eventi luttuosi, che si erano verificati con dolore di molti, infine anche suo. Cominciò rapidamente a circolare la frase: «Lei sapeva e noi non le abbiamo creduto».
La parola “indovina” fu usata, smentita ad alta voce dalla famiglia e da chi aveva il potere di farlo. Fu usata “visionaria”, ma era difficile da spiegare, da riassumere. Non aveva studiato né le carte, né i ciottoli, né gli ossicini di vipera, né gli astri, né sapeva interrogare i morti. Era soltanto una donna che dice stranezze, non c’era una ragione seria per crederle.
Di fronte intanto a nuovi gravi eventi Cassandra fu dimenticata, con lei anche tutte le piccole questioni che riempiono la vita quando non c’è di peggio.
Cassandra sapeva che quanto aveva visto in anticipo era sempre avvenuto, sapeva che questo era stato capito senza che fosse mai ammesso, ma a lei non importava certo un riconoscimento. Avrebbe voluto rendersi utile, senza potere. Alla fine ciò che le restava era la vergogna; non poteva guardare le persone colpite dalla sua predizione, che la osservavano con indefinito disprezzo. Si vergognava di essere creduta bugiarda; della follia poco le importava, d’altra parte se la sentiva addosso, avesse o meno quel nome. Si vergognava del male predetto come se fosse lei a provocarlo, e in parte lo credeva. Non riusciva però a vietarsi il compiacimento per quando moriva o scompariva qualcuno che era stato testimone, foss’anche involontario, di qualche sua tragica previsione.
Quando urlò in anticipo la distruzione della sua città e la morte rombante con gli incendi in ogni casa, in ogni angolo, i calci in faccia ai bambini, le spade nelle vagine delle vecchie e delle ragazze perché anche i guerrieri erano stanchi di sesso, quando pianse tutto questo si vergognò di averlo pensato, di averlo visto.
La calmarono con violenza.
Quando Cassandra si riprese vide le prime vele dei nemici che tornavano, sembravano ancora più numerosi, in lontananza già gridavano con voci di bronzo: non avrebbe dormito mai più, per la vergogna uguale al dolore.
Salì sulla rocca, il mare era quieto e deserto, le isole erano chiare, i bambini giocavano nei cortili, i cani dormivano alle porte della città, gli uccelli volavano dritti fra le sponde argillose del fiume e i tetti delle case a costruire nidi, i soldati sognavano nuovi campi, le donne studiavano altri telai, i vecchi cercavano le parole per ricordare meglio quel giorno.
Non avrebbe resistito a vedere il seguito.
Sulla rocca, una sporgenza più alta, che sembra un ponte, con nidi abbandonati da poco. Cercò il sonno come una gazza, volando dalla torre. Era certa che non ci sarebbe stato tempo per accorgersi di lei, per imbarazzanti riti funebri: il peggio era già arrivato.