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L’alzaponti

Le cose bisognava saperle fare, e così nasceva la professione. Anche quella dell’alzaponti.
Non si chiamava pontefice, nel senso di facitore di ponti, né architetto, che nel caso sarebbe ben appropriato, dovendo tendere archi, cioè alzare la schiena di un ponte per scavalcare un torrente; per altro, architetto è una parola molto importante; anche pontefice, non dico.
Ma fare ponti è un mestiere, che ha i suoi rischi, per l’alzaponti stesso, per la sua famiglia, e più spesso di quanto si creda a causa di una maledizione che a volte si insinua inattesa là dove non dovrebbe. Cioè mai, e invece c’è realmente.
Anche i passanti hanno i propri timori, e avviene che facciano percorsi molto più lunghi, per evitare certi ponti; per fortuna tante cose si dimenticano e ci sono ancora ponti perché ci sono ancora torrenti, e le montagne hanno bisogno di sentieri e i guadi non sempre sono sicuri, d’inverno mai.
I ponti in pietra, quelli costruiti dall’alzaponti, sono ancora lì: non dico tutti, perché nessuno li ha mai contati e attribuiti con certezza, ma ce ne sono parecchi; saranno certo di costruttori diversi, ma la professione era una e bisognava pagarsela, voglio dire meritarsela, con fatica e sacrifici estremi com’è avvenuto in casi leggendari, cioè raccontati.
Marcos Kantoghiofýris, è stato più di un alzaponti anche se il suo nome allude soprattutto a quell’attività (strano nome ma traduzione corretta: Fanneunponte); e il luogo, l’Epiro, è la più frequente e famosa zona di attività di tutti gli alzaponti del XVIII secolo, con esempi già nel secolo precedente.
È rimasta nella tradizione una variante del suo nome in Kontoghiofýris, grafia per certo più logica dell’altra – che è di provenienza orale, assonante – ma dal punto di vista della professione certamente negativa: sarebbe a dire Pontecorto, che non è il massimo per un alzaponti. E per di più sta in corrispondenza, o in premonizione poco o molto credibile del momento più doloroso della sua vita: l’incontro col diavolo.

Comunque sia Marcos Kantoghiofýris firmava le proprie opere: M sculpsit. In modo per lui naturale si era sempre considerato sotto quel profilo dello scultore, che lo aveva orientato con forza, per il fatto di poter bloccare una immagine nella pietra, con la pietra, e farne un’opera.
L’inizio tuttavia aveva creato confusione fra la gente, disagio fra i committenti e costernazione nei villaggi; infatti poco importavano a lui i confini delle arti, la tradizione dei materiali usati, e i limiti della proprietà.
Ciò che a lui sembrava nitido disorientava tutti gli altri, ma non c’era in questa differenza un serio problema perché nessuno dava vera importanza alla sua arte, e al limite lo chiamavano “il matto”: così tutto risultava spiegato e in ordine.
Marcos Kantoghiofýris era poco più che un ragazzo, senza cognome ancora, quando si esaltò, con dolore, e mise il proprio nome su di un naufragio, come firma d’autore.
Era l’alba quando diverse persone e poi una folla si era radunata sulla costa davanti agli scogli di Avlémonas ricoperti di schiuma e di ondate. Fin dalla notte, agli occhi di pochi, un brigantino disalberato rischiava di sbattere sull’isolotto fuori del porto, governato con il solo timone e un solo fiocco di fortuna; cercava di entrare in porto oppure di ripararsi dalle furie incrociate di vento e mare dietro l’isolotto; bisognava rasentare gli scogli, trovare un varco, se ci fosse.
Uomini come formiche correvano e si arrestavano e cadevano sulla tolda nel tentativo di alzare un altro fiocco per governare il brigantino.
I sibili e gli scrosci coprirono le grida dell’equipaggio e degli spettatori, avendo coperto un momento prima lo schianto del veliero sulla roccia. Sicuramente sventrato ora scivolava giù di poppa, quando un colpo d’onda fortunatamente lo inchiodò sugli scogli, pur sommerso a metà.
Tuttavia solo affogati furono raccolti il giorno dopo; due morirono più tardi senza poter raccontare nulla. Non si sa se qualcuno, per un caso leggendario, si sia mai salvato verso un improbabile altrove.
Alla sera di due giorni dopo il naufragio, Marcos si arrotolò la gamba dei pantaloni, lasciò le scarpe in una buca delle rocce coperta con un sasso, e a torso nudo nuotò verso il relitto avendo legato ai fianchi un sacchetto di tela contenente due scalpelli da legno e due martelli di diverso peso.

Il brigantino appariva sempre come sul punto di emergere, fisso invece e incastrato nella pietra come bloccato in un quadro dipinto. Marcos lo vide piuttosto come una scultura naturale, formata dal caso e duratura nel tempo, un tempo sufficiente per entrare nella memoria di molti, e scolpì in un angolo della prua, sotto i fianchi rotondi della polena frantumata la sua prima firma. Tanto lo aveva coinvolto il naufragio da sentirlo come suo.
Cercò analoghe occasioni senza incontrarle e così fu quello l’unico naufragio che firmò, senza volontà preordinata, senza maligna intenzione, ma in un estremo desiderio suo personale di fissare materia, vita e immagini.
A partire da quell’evento sapeva di potersi appropriare di altro, non suo fino a quel momento, purché l’emozione e la partecipazione fossero massime.
Un tremore lo prendeva, una vibrazione fredda sulle tempie, un blocco al centro delle spalle, uno spasmo delle cosce, una erezione, una tensione dei piedi come crampi paralizzanti che poi svaniscono e lasciano libero il respiro.
Fu così che cominciò a firmare alcune montagne, dopo averle studiate a lungo e trovata la prospettiva che più lo eccitava. Firmò, sempre con M sculpsit, qualche albero secolare. Attraversava boschi e montagne, qualche rara pianura, si fermava a osservare ponti sui torrenti, lavori in corso, immaginando variazioni nel taglio delle pietre, finché chiese lavoro, lo ottenne e in breve apprese come pensare un ponte, così come lo immagina un alzaponti, e infine a bloccare un arco.
«Il sentiero mi ha detto che vuole un ponte per scavalcare il torrente.»
«Il sentiero mi ha detto che vuole un ponte per scavalcare il torrente.»
Nel paese vicino a quel torrente e a quel sentiero lo guardarono come si guarda un pazzo: o facendo conto di niente, o dicendo che si potrebbe valutare l’offerta. Risposta interlocutoria e poi negativa. Dopo aver studiato di più e lavorato molto con diversi alzaponti, ai quali imparando rubava il mestiere, si offrì ad altri villaggi.
«Il sentiero mi ha parlato, il bosco mi ha parlato, anche il torrente è d’accordo a chiedere un ponte. Io vi chiedo un ponte.»
Lo guardarono con attenzione e gli dissero di sì, anche se sembrava matto. Alzò il suo primo ponte, in pochi giorni squartanti, aiutando a sagomare le pietre, a montarle, cambiando profili e appoggi, con idee per l’arco nuove ed efficaci. Era giusto che il ponte fosse firmato, perché nuovo, e perché si sapesse che era opera della sua unica tensione; in quel tempo solo per lui una firma era un grido di passione contro il destino, per quanto possa durare.
Poiché non aveva chiesto di essere pagato nessuno lo pagò. In cambio il capo del villaggio che aveva accordato il ponte consentì la firma esclusiva dell’alzaponti, benché cosa del tutto insolita, e non chiese che ci fosse il proprio nome di committente, come di consueto. Forse in cambio aveva intascato lui il compenso, che era fissato per tradizione dalla larghezza, dall’altezza, dal numero delle arcate e dalla durata dei lavori.
Marcos Kantoghiofýris approfondì le sue idee sul taglio, sulla dimensione, la progressione e l’ordine delle pietre.
Per questo e per molto tempo non si offriva più ad alzare ponti, perché li archeggiava nella mente, contraendo muscoli, tendendo la schiena e sudando come a trascinare un carro in salita o a martellare le pietre al sole d’agosto. O fissando il vuoto, lontano in vallate e, per sfida, in grandi pianure che non aveva mai attraversato. In questa attesa incontrò una donna che lo lasciò senza pensiero; la prese con felicità e terrore, con delicatezza incise solo una M sul suo ventre quando fu chiaro che aspettavano qualcuno, che nacque femmina in cambio della morte della madre. Per allevare la piccola, dal nome di Charà, Marcos s’impegnò a dimenticare lo spavento del dolore.
Per farla contenta alzò molti ponti in diversi anni, su torrenti e montagne, con idee sempre nuove e brutti ricordi. La sua firma conteneva tutto questo, sollevando ammirazione e invidie, e poi persino un avversario implacabile suscitato dalla forza del male.
L’idea diffusa fu che si trattava del diavolo in persona, e si era formata come risultato di eventi insoliti e incontrollabili.
Marcos aveva accettato di costruire un ponte importante, sul luogo in cui la valle sbocca su di una pianura, anche se quel vuoto si spalancava in lontananza verso il mare e prima ancora su di un terreno paludoso.
Aveva raccolto un numero insolitamente grande di collaboratori e operai, sapendoli organizzare e guidare in un’opera complessa, a cinque arcate, alte sul terreno infido, larghe per far passare anche due carri in opposta direzione.
Alzare quel ponte comportava fatica e nessuna gioia, se non nell’orgoglio di poterlo fare. Il ponte fu compiuto con più tempo del previsto, e una sera era pronto per la firma di Marcos Kantoghiofýris, che scontento senza sapere perché disse che c’era ancora spazio per degli aggiustamenti da fare in qualche giorno.
La notte concesse un sonno breve poiché il buio era ancora denso quando un rumore crescente e poi un boato e lo schianto di un crollo chiamarono torce accese e persone a vedere cosa ci fosse. L’arcata più alta si era schiantata come colpita da una grande clava.
Marcos, che aveva subito capito senza dubbio alcuno, arrivò per ultimo, quando già albeggiava. Studiò le pietre cadute, quelle rimaste appese, e le trovò corrette. Non c’era una ragione né tecnica né naturale perché l’arco fosse sceso in frantumi.
Cacciò gli intrusi, radunò i collaboratori esperti e fidati; valutarono insieme pietre, forme, denti di appoggio e sbalzi di aggancio, e non trovarono errore.
Per tre volte l’arco fu rimontato, colmato e sigillato e per tre crollò, una volta di notte, di nuovo, e le altre di giorno, in una nuvola piena di lampi. Qualcuno poi disse di color giallo e puzza di zolfo.

Il messaggio gli arrivò di giorno, in un momento di riposo. Una pietra parlò e Marcos credette di essere impazzito. Poi si ricordò che le pietre gli avevano parlato tante volte, per aiutarlo.
Ora la pietra disse che non avrebbero resistito, né lei né le altre, non perché non fossero perfette ma perché una forza incontrollata le squassava e le spostava fino a perdere gli appoggi. Un’altra voce, che non era della pietra, suggerì che concedere Charà sarebbe stata la soluzione.
Il messaggio non fu capito, né poteva.
Il giorno successivo Marcos cacciò tutti per poter riflettere e fu allora che un nuovo alzaponti si presentò dicendo di essere stato chiamato per dirigere i lavori, ma non ci teneva a completare un’opera, ai suoi occhi, di poco conto. Non avrebbe fatto problemi, ma neppure avrebbe aiutato ad aggiustare il progetto.
Per di più accettava volentieri il consenso di Marcos a prendersi Charà e a portarsela via. La ragazza d’altra parte era d’accordo da diverso tempo – lui continuava a parlare e dire – ma non aveva avuto il coraggio di manifestarsi, tanto la intimidiva l’autorità del padre.
Il silenzio dentro e fuori Marcos cominciò in quel momento, totale, e durò per mesi e anni.
Si accorse di avere la barba lunga come un eremita, di essere dimagrito e di non avere né fame né sete.
Si guardò nell’acqua del fiume e non si vide. O non si riconobbe. Cercò tutt’intorno e non vide nessuno che conoscesse o che lo riconoscesse. Alzò gli occhi e osservò il ponte che ormai resisteva. Persone e carri ci passavano tranquillamente sopra.
Per abitudine andò a ispezionare le fondamenta, l’attacco degli archi e le pietre alla sommità della volta. Il disegno era diverso dal suo, e lo trovò geniale.
In un punto nascosto trovò una firma, nel posto esatto ed esclusivo dove lui l’avrebbe incisa. Charà sculpsit.
Non la cercò perché sapeva che non l’avrebbe trovata, ma camminando spesso si voltava indietro credendo di essere seguito.
Quando glielo chiedevano accettava di alzare archi, perché il suo nome era alto per quel famoso grande ponte di entrata alla pianura, a cinque sublimi arcate sulla palude, rimasto senza firma poiché si era rifiutato di marcarlo; o perché, questo tutti ricordavano, vi aveva perso la figlia nella tragica circostanza dell’ultimo imprevisto crollo.
Le richieste stavano tuttavia calando in quanto cambiavano le strade, i percorsi, le forre dei torrenti e l’ampiezza dei villaggi. Gli ultimi ponti alzati furono i più belli; non corrispondevano più alle esigenze del passaggio, e invece a una elegante mistura di suoni d’acqua e di echi fra le pietre, di colori del bosco; li costruiva senza che glielo chiedessero, e si aspettava, sperava, che cominciassero a crollare, per riavere la figlia.
Quando lo trovarono morto assiderato e smangiato da qualche lupo aveva scolpito la sua firma su tutti gli alberi della radura piegati con sapienza di pesi e contrappesi a formare una cupola dove il vento sibilava storie a memoria.

Bruno Pompili

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