La prima pulsazione di Lolita
Anche se Vladimir Nabokov ha definito L’incantatore (Adelphi, 2011) il «primo, piccolo palpito» di Lolita, sarebbe sbagliato considerare questo scritto come un mero esperimento, una semplice prova antecedente il romanzo sulla ninfetta più famosa della letteratura. Se da una parte L’incantatore è una sorta di scheletro dell’opera del 1955 (certo molto più breve ed essenziale, in cui però è già possibile intravedere un progetto più complesso), dall’altra la struttura del racconto è tale da poter sussistere in completa autonomia. Sono presenti la nota cura di Nabokov per il particolare (che in testi come Ada o Ardore raggiunge punte di massima espressione), oltre che la tendenza dell’autore a raccontare una storia seguendo una precisa logica deterministica: sin dalle prime pagine, infatti, gli eventi sono presentati in maniera tale per cui a delle azioni seguiranno delle ovvie conseguenze.
L’incantatore conosce la sua ninfetta in un parco, a Parigi: in seguito, ne sposa la madre malata, sperando in un rapido decorso della malattia, in modo da poter, in veste di patrigno, godere indisturbato della compagnia della figliastra. Il piano è perfetto, peccato che la perfezione sia puntualmente destinata a collidere con gli imprevisti della quotidianità (e in questo, il soggetto ricorda vagamente il protagonista di un’opera di Friedrich Dürrenmatt, La promessa, dove l’investigatore Matthäi è così sicuro dell’infallibilità dello stratagemma elaborato per catturare l’assassino della povera Gritli, che basta un banale fuori programma per mandare tutto a monte e farlo sprofondare nel baratro della pazzia), in un concatenarsi di eventi che conducono all’inevitabile rovina. Nabokov rappresenta le sfortune del suo protagonista con macabro umorismo, osservando dall’esterno lo sgretolarsi del microcosmo dell’Incantatore, costretto a rinunciare al suo mondo onirico per scendere a patti con la realtà.
Dal momento che Nabokov preferisce «l’esperienza artistica concreta piuttosto che l’astratta dichiarazione moralistica», è chiaro che niente nel libro è volto a fornire un giudizio etico sulle azioni dell’Incantatore: l’opera è «lo studio della follia vista attraverso la mente del folle», poiché nel protagonista convivono sia le pulsioni corrotte, sia la consapevolezza della propria depravazione e della necessità di un riscatto. L’autore mantiene le distanze da quanto narrato, evitando qualsiasi considerazione di natura morale, lasciando che i fatti parlino da sé, che la storia si snodi naturalmente, senza interferenze.
Il lavoro dello scrittore russo brilla per la sua alta qualità formale, per lo stile delle descrizioni, mai noiose o retoriche, capaci di ricreare interi scenari con precisione e un raffinato gusto del dettaglio. Sebbene l’autore non fornisca una sua personale opinione dei fatti, il lettore sa che non esiste giustificazione alle pulsioni dell’Incantatore: dai primi richiami a Lolita – a partire dal titolo, palese riferimento all’albergo “I cacciatori incantati” – L’incantatore preannuncia, sebbene concettualmente, «in quanto ispirazione», non solo Dolores Haze, ma anche Humbert Humbert, la cui nevrosi sarà caratterizzata da sfumature ancora più articolate, inserite in un quadro spazio-temporale ampio e variegato.
L’incantatore è una lettura piacevole (anche grazie alla traduzione di Dmitri Nabokov, che già aveva curato l’edizione italiana del 1987 per Guanda) che dimostra l’abilità di Nabokov nello strutturare un’idea preliminare a un piano ben più ambizioso, senza per questo privarla della sua indipendenza e dignità artistica.
Il contributo è di Elena Spadiliero, 27 anni, nata a Valdagno (VI) e residente a Verona. Laureata in Lingue e culture per l’Editoria, e con un master di primo livello in Professioni e prodotti dell’Editoria, tra le sue passioni ci sono il cinema, la letteratura e il fumetto Dylan Dog. Editor per una piccola agenzia letteraria e redattrice della webzine “La bottega di Hamlin”, collabora con il blog “Sul romanzo”.