La perfetta felicità
Un sabato mattina, mentre stavo per prendere la strada dei boschi, incontrai un vecchio signore con un paio di fitti baffi grigi e soffici capelli brizzolati. Mi chiese se conoscevo un agricoltore di origine tedesca che allevava capre e gli risposi che sapevo solo di un altoatesino con un caratteraccio e un piccolo allevamento di tacchini, ma di capre neanche l’ombra.
“Forse avrà venduto la casa…”, osservò l’uomo con aria pensosa.
“Sono sicuro abitasse da queste parti, ma, si sa, gli anni passano…”, disse ancora. Alzò le spalle e si incamminò verso l’auto con passo rigido.
Mentre guardavo quella sua strana andatura mi venne in mente che a casa mia, in primavera, ingrassavamo i piccoli delle capre per mangiarli. Solo che quando erano abbastanza grandi, ci affezionavamo e, assieme ai miei fratelli, pregavo mio padre di non ucciderli. Piangevamo e facevamo promesse, ma, niente da fare, lui li faceva fuori tutte le volte.
Di colpo mi venne in mente il vecchio Gros con le sue girandole di legno e quegli strani giocattoli che vendeva nelle fiere paesane intorno al lago. Andai così verso l’ometto, che intanto era già salito in macchina e stava sistemandosi con tutta calma la cintura.
“Mi è venuto in mente un tipo che di sicuro è un po’ tedesco, ma da quello che mi risulta non ha nessuna capra… Solo vecchi giocattoli a molla e girandole strane…”.
Bastò quello per fargli cambiare espressione.
“Sì, penso sia lui… Aveva la fissa dei giocattoli a molla anche sotto l’esercito..”
Gli spiegai allora dove abitava il vecchio Gros e rimasi colpito da quello che mi disse.
“La musica è l’unica ragione per la quale mi è stato concesso di sopravvivere… Per questo devo parlare ancora una volta col figlio di Felix.”
Aveva nello sguardo qualcosa di penetrante e di inquisitorio che mi metteva a disagio e forse per questo non parlai più e lo seguii con lo sguardo mentre si immetteva sullo stradone.
Quelle ultime parole mi rimasero in testa per un paio di giorni e, non so perché, il nome Felix continuava a ripetermisi dentro all’infinito.
Qualche giorno dopo, mentre guidavo in pieno sole in direzione del lago d’Idro, continuavo a sorprendermi di quanto certe montagne mi fossero familiari.
Sentii che alla radio parlavano del diario ritrovato di un tenente austriaco che durante la prima guerra mondiale aveva vissuto un anno sulle Giudicarie. In quel quaderno annotava non solo di scontri o di appostamenti militari, ma anche di tramonti, fiori e incanti. Mi colpì molto come veniva descritto questo giovane ufficiale di famiglia nobile viennese e mentre ne leggevano un brano mi sentii avvolto nel cerchio magico dei suoi sentimenti, delle sue opinioni, delle sue fantasie.
“Sul Cadria, natale 1916. Si canta Stille Nacht e poi l’inno imperiale. Le vedette che rientrano mi regalano un alberello piccolissimo che metto nel bossolo di uno schrapnel e vi fisso dieci candeline; vi lego con uno spago le mie strenne e quando arriva il maggiore accendo le candeline e ne riluce la caverna.
Un tenente suona con l’armonica a bocca vecchi motivi che ci portano lontano e ci rattristano; tutti sembrano allegri, ma nelle pupille ci sono le loro case…”
Quella che raccontavano era una storia reale che metteva in gioco questioni di vita e di morte. Una storia fuori del comune, ma anche una storia singolare e terribile.
Si chiamava Felix Hecht, sì, così lo avevano chiamato più volte. A un certo punto mi fermai con la macchina per ascoltare meglio quello che si diceva ed era chiaro dalle sue parole che odiava la guerra in sé e quell’inutile massacro.
“Rabbia bestiale mi prende col comandante dei prigionieri di guerra italiani, che egli lascia dormire senza coperte senza darsi cura di procurarle; questi poveri prigionieri che egli chiama mascalzoni hanno fatto il loro dovere in guerra certo meglio di taluni nostri porci imboscati nei comandi truppa…”
Che fosse lo stesso Felix di cui parlava il vecchietto in cerca di Gros? Che questo Felix Hecht fosse davvero (in qualche modo) suo padre?
“Per la prima volta comincio a temere il crollo dell’impero austriaco visto che la guerra sembra prolungarsi all’infinito… Quando verrà la pallottola a mettere fine a questa situazione insopportabile?… La morte strappa uno dopo l’altro gli amici migliori e si rafforza in me la determinazione di morire valorosamente come loro”.
La trasmissione alla radio terminava descrivendo i luoghi in cui Felix Hecht aveva vissuto nel corso della guerra: il Nozzolo, il Cadria, il monte Stivo, il Creino e il Corno di Cavento in Adamello. Luoghi connessi più al passato che al presente in cui nulla è cambiato da decenni.
In quel momento mi trovavo proprio vicino alle Giudicarie, nei pressi di cima Nozzolo e, quasi senza pensarci, mi avviai verso quella montagna.
Da Tiarno di Sotto, dopo tutta una serie di tornanti, arrivai a Bocca Giumella e parcheggiai in una piazzola.
Mi incamminai a passo lento per un sentiero, fino a un’altura erbosa. Tutto era silenzioso, ma c’erano dei sussurri. Il movimento delle cime degli alberi era costante e lo splendore delle nubi colorava le cortecce degli abeti di un delicato color ambra. L’erba era alta fino al ginocchio e in mezzo vi crescevano piccoli arbusti simili al ginepro che non arrivavano alla caviglia.
In lontananza cominciavo a vedere la parete rocciosa del Nozzolo Grande e di lì a poco mi ritrovai vicino a un branco di capre al pascolo che mi guardavano con occhi scarsamente curiosi, senza mostrarsi allarmate.
C’era lì vicino anche un vecchio pastore seduto su un sasso che mi salutò con una specie di inchino.
Quando gli fui vicino mi parve di conoscerlo bene, quasi fosse un amico. C’era qualcosa di strano in quella sua posizione: pareva seduto a fissare attentamente qualcosa. Era appoggiato a un bastone e aveva un viso roseo, occhi di un azzurro intenso e una massa di capelli ondulati, bianchi e lucidi.
“Che bella giornata”, disse. “Fa apprezzare di esser vivi.”
“E’ un posto molto piacevole, questo”, soggiunsi io.
Mi affrettai a fare qualche osservazione sull’eccezionale mitezza della giornata, ed egli mi rispose con una voce cortese e pacata.
Mentre mi raccontava di erbe fiorite su picchi e pendici scoscesi notai che il suo bastone aveva inciso in rosso delle lettere e un nome di cui gli chiesi. Il nome era Felix Hecht.
“Mio padre”, disse. “Qui al Nozzolo, malgrado la guerra, raggiunse la perfetta felicità.”
(MC)