La Grazia
La casa di Lina e Teresa sorgeva a Posillipo.
Uno stretto marciapiede portava verso l’alto, allargando progressivamente la visuale senza aggiungere nulla alla magnificenza del panorama.
Era un appartamento sempre in penombra, a parte I”ultima stanza che guardava in faccia il golfo e l’isola di Capri.
Più che un’abitazione sembrava una stazione dove, tra un continuo andirivieni, si apriva o si chiudeva qualche vacanza.
Sul bancone della cucina, ogni tanto, compariva un pacchetto furtivo contenente pizze o un dolce tradizionale: gli struffoli.
Non ricordo di avervi mai mangiato altro né dormito, se non una notte su un divano.
Eppure le volte che l’ho frequentato sono tante.
Ho ben presente l’ampio androne e le scale.
Lo spioncino della porta d’ingresso, una piastrina di ottone traforato davanti al quale esitavo.
Appena dentro, però, il piede volava lungo la fuga delle stanze per giungere nel locale in fondo, dove di solito era già radunata una piccola corte di donne, conosciute e sconosciute.
Sulle pareti e sul cavalletto i quadri graffianti di Lina.
Il fumo delle sigarette e quello degli incensi saturavano l’aria, ma ciò che rendeva l’atmosfera così stordente era la magia di “Nemesi”.
Capitò che fosse più leggera, soprattutto l’inverno che passò in via Caccianino.
Nonostante soffrisse per il grigiore di Milano, si comportava in maniera più spontanea e affettuosa.
Quello stesso anno, dopo Natale, decidemmo di scendere a Napoli in tante.
La meta finale sarebbe stata Amalfi.
Chi in macchina, chi in corriera, scavalcammo Agerola e da lì ci calammo, quasi di notte, sulla Costiera.
lo ero seduta accanto a Grazia, una ragazza molto avvenente ma in perenne lotta con se stessa, preda di un tormento indefinibile.
Faceva la modella e mi avevano colpito alcune sue foto in abito da sposa: un’immagine da sogno, doppiamente ingannevole per chi era inconsapevole.
Ritrovavo in lei, come in ogni persona che soffriva, la mia ferita.
Volevo curarla col calore dell’amicizia, della nostra compagnia.
Non funzionò, nemmeno per me, quando mi resi conto che la mia vita precedente non poteva continuare a rimanere esclusa dal presente.
Dovevo staccarmi dal viluppo incantatore delle amiche, rimettermi al passo col tempo.
Una mattina, sul lungomare di Mergellina, Lina mi regalò una conchiglia.
Delicata, preziosa, simile nella forma e nelle venature alle foglie dei ciclamini.
Da portare come la sua, appesa al collo, vicino al cuore.
Non molto tempo dopo, si ruppe proprio nel mezzo e le due metà si separarono.
Tentai invano di rimetterle insieme.
Non si unirono più.
(Michela Gusmeroli, da “Una sera dolcissima”, Editrice Zona, Arezzo 2010)