L’astuto si confonde
Gli anni della solitudine non si raccontano, ovvero bastano poche parole; se si volessero chiarire i segreti, allora non basterebbero. Penelope non poteva nascondere i suoi fatti, ma le parole se le vietò; così preservò molto della sua vita e della sua storia.
La solitudine offre il vantaggio del molto tempo a disposizione. E il tempo consente di immaginare o ricostruire anche ciò che direttamente non ci appartiene.
Per un po’ fu disorientata; non tornavano i conti delle notizie, non tornava neppure Oudìs.
I messaggi erano rari, e le notizie arrivavano con i messaggi o qualche illusione a voce, a volte luttuose, a volte fuorvianti, o anche insensate, intrise di storie fantasiose che si riempiono di aggiunte lungo il percorso: se il messaggero era bravo, e in giusta parte disonesto, cioè senza volontà di mentire, ma per il piacere di sentirsi importante, ascoltato per una sera, la comunità ne era acquietata.
I paesi erano attraversati da falsi messaggeri e da veri raccontatori. Ne ricevevano ospitalità e certe volte rispetto.
Che Oudìs, di nome Ulisse, non tornasse ancora, era causa di preoccupazione diffusa, nella popolazione e a casa sua. Penelope se la cavava alla grande, o con durezza o con astuzia, quando chiudendo la sua stanza quando aprendola, se era il caso.
Molti degli assurdi guerrieri impegnati in vere battaglie, anziché dedicarsi meglio a duelli di rappresentanza seppur cruenta, si sentiva dire che fossero tornati; ma c’era una maledizione contro di loro, una sfortuna e ostacoli accaniti.
Anche gli dei si erano mischiati agli umani, e quanti erano ripartiti da quella città lontana e distrutta avevano incontrato follia, stranezze, o uccisione dentro casa.
Di Oudìs, si diceva grande gloria, per la sua astuzia e, cosa sorprendente nel suo paese, anche per la forza. C’era ormai quella storia di un cavallo di legno, che doveva essere di sicuro una favola. Anche un poco banale e già sentita, non per gli altri, i nemici, che ci erano cascati. E sì che da noi era un gioco da paese.
I bambini lo aspettavano per farsela raccontare per bene, seduti il pomeriggio sugli scalini delle case; i vecchi sapevano come vanno le cose e che un buon racconto nasconde altre verità, o altre finzioni.
Il fatto è che Oudìs non tornava e invece arrivavano i suoi messaggi, scritti per di più. Penelope aveva capito già alla partenza che non sarebbe voluto tornare. L’occasione era giusta, per non dare nell’occhio, e per ricominciare una vita.
Qualche legame casuale, qua e là, con donne forse misteriose, ma non rare, di cui si sentiva raccontare da sempre, e che attizzavano le curiosità nelle taverne e negli accampamenti, con dettagli incredibili, era stato messo in conto da Penelope senza troppo pensarci.
Certamente Oudìs si era organizzato, perché tattiche e strategie gli erano familiari.
Lentamente, più per curiosità che per altro, Penelope si trovò nella condizione di afferrare il bandolo della matassa e venire a capo di uno strambo segreto, un piccolo imbroglio piuttosto. Sorrise di lui, in parte ammirandolo, come una persona del passato, remota, tuttavia.
Siccome non ne era del tutto certa, non ne parlò con nessuno, cercando di far fronte ad altri problemi, ma perdendo ogni giorno un pezzo di ricordo e alla fine quasi tutto.
Entrata nell’idea dell’imbroglio, ogni nuova lettera ora diventava una conferma.
Secondo Penelope, pure lei familiare ad astuzie e trucchi, Oudìs aveva preparato in anticipo dei pacchetti di lettere, spesso simili nel caso una se ne perdesse, approfittando dei momenti d’ozio dell’accampamento: dovevano essere inviate a cadenze fisse quando non avesse avuto la facilità di scriverne giorno per giorno.
Registrava, inventandole, tante peripezie e contrarietà che rallentavano il suo ritorno a casa, anche in tempi in cui l’assedio a Ilion e la guerra erano lontani dal concludersi.
Non era ancora partito per ritornare, non aveva ancora avuto l’idea di mettere in campo il cavalluccio di legno, che già navigava – scriveva – e da qualche parte naufragava.
Le chiacchiere e i racconti nelle sere dell’accampamento, il vino d’oriente e la docilità delle schiave, erano la sua fonte preferita, perché utile, e favole incontrollabili suggerivano il contenuto delle lettere. Un filo logico le collegava per argomento, per spostamenti, incontri, soste inevitabili, naufragi orribili e dimore fatate, o giganti e maghe.
Questa strategia avrebbe anche rallentato la certezza e il fatto della sua morte.
Intanto la guerra durava più del prevedibile; occorreva inventare qualcosa per accelerarne la fine, o almeno bisognava dare altri tempi e altro ordine alla partenza dei messaggi. In questo aveva fatto qualche confusione.
Sapeva che l’imprevedibilità dei percorsi, i fatali agguati ai messaggeri, la perdita di alcuni, ogni credibile impedimento in tempi così complicati, contrade inesplorate e briganti organizzati, tutto questo insieme giustificherebbe qualche salto logico e incongruenza temporale nella corrispondenza diretta verso la sua casa.
Dure sortite degli assediati, unite al valore ormai riconosciuto dei nemici, arrivarono qualche volta a creare scompiglio nell’accampamento, e un disordine distruttivo fra le sue cose. Pensando alla confusione naturale dei percorsi non si curò di rivedere l’ordine di partenza dei suoi scritti, avendo anche perso il punto a cui si trovava nella sua macchinazione domestica.
Penelope sapeva ormai distinguere, lo aveva imparato con la pazienza, fra qualche incongruenza logica dei messaggi e contraddizioni clamorose. La finzione era splendida ma si faceva riconoscere a colpo d’occhio.
Si compiaceva dell’abilità di Oudìs a inventare o a imitare, dunque piuttosto a riferire, perché non gli riconosceva la lenta maturazione di una storia, e invece solo il riassunto di ciò che con curiosità sentiva dire. Sicuramente era abile a ricucire, quasi intrattenesse ospiti davanti al fuoco, magari con una schiava che gli addolcisce le ferite, vere o presunte.
Ancora di più sorrideva, molto di nascosto, pensando che un giorno qualcuno, molto bravo di certo, avrebbe raccolto documenti e chiacchiere per scrivere una bella storia, complicata, in parte sognante: quella sarebbe stata la verità per sempre.
Secondo i suoi calcoli, interrogando qua e là, parlando con i vecchi, facendo qualche sua breve esperienza di viaggio, raccogliendo memorie da qualcuno che era tornato, purtroppo un poco confuso o proprio allucinato dal tempo e dai disagi, interpellato un indovino famoso, tanto per esibire qualche certezza, ormai, fra qualche stagione, il ritorno era possibile.
Salvo esiti letali, da qualche parte, fra le cosce di una cosiddetta maga, nell’antro di un gigante furente, nelle acque incontrollate di un vortice inviato da un dio contrario, o per una vendetta fra amici – con lui ti potevi aspettare di tutto – salvo esiti fatali, dell’ultimo momento, e secondo il volo degli uccelli migranti, un ritorno lo si poteva aspettare.
Penelope considerò che occorreva al più presto sistemare le cose della sua casa e delle sue proprietà. Troppi estranei avevano bivaccato nei cortili e nelle cantine, per non dire altro.
Al ritorno di Oudìs, per logica sarebbe avvenuto di notte, tutto doveva essere già sistemato. Raccolse le residue forze amiche e ripulì dagli estranei il palazzo e le adiacenze. Un crudele bagno di sangue, sicuramente; così è che si dice.
Certo che tornò, nel tempo previsto, e con la gioia di tutti; poi a quattr’occhi dovette ammettere delle confusioni. Visto ormai il tutto, e che la sua sposa e suo figlio se la cavavano magnificamente senza di lui, non sarebbe rimasto a lungo, inventandosi obblighi diplomatici in paesi importanti.
Penelope sorrideva dentro di sé compiaciuta, e bisbigliava: impegni immaginari. Purché infine Oudìs lasciasse ad altri il compito di raccontare.
La consapevolezza, a lei bastava. Poi, la solitudine, l’avrebbe gestita con esperienza, senza lasciarsi confondere. Lei.
(Racconto di Bruno Pompili)