L’aria tiepida odora di pino
Eravamo tanto giovani! Le più giovani avevano sui sedici anni, le più vecchie sui venticinque-ventisei. Eravamo tutte entusiaste, lo facevamo perché sapevamo che era un nostro dovere, ci rendevamo conto di fare qualcosa di importante. E poi qualcuna di noi aveva il fidanzato in trincea, altre il marito, altre i fratelli. Lo si faceva per loro e per i compagni che soffrivano assieme a loro. C’era una grande solidarietà fra tutti noi.
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In tutto eravamo centoquarantaquattro donne e ragazze addette al rifornimento del fronte. Solo noi potevamo portare il cibo e le munizioni lassù; gli uomini rimasti erano gli anziani e i malati, che cosa si poteva aspettare da loro? Solo noi, abituate da sempre alla fatica, potevamo caricarci sulle spalle le nostre gerle, per portarle lassù lungo quei piccoli sentieri dove passano solo le gambe.
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Siamo state arruolate, proprio come i militari. Avevamo un bel bracciale rosso che ci contraddistingueva. Ci sentivamo tanto fiere! Pensi che a volte dovevamo andare alle trincee con una neve che arrivava ai piani alti delle case, in piena notte. Il parroco ci veniva a chiamare anche di domenica.
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(Paolina, portatrice del gruppo di Timau)
Oggi le montagne che ho di fronte vibrano di una luce azzurra e violetta. Gli alberi s’inarcano e s’intrecciano nella simmetria più perfetta.
L’aria tiepida odora di pino e di uva ursina in fiore. Aleggia un sentore simile a quello dei ruscelli di montagna in primavera, quando si gonfiano di neve sciolta e iniziano a straripare.
Rivolgo lo sguardo all’indietro verso le montagne disordinate che ho attraversato. L’aurora si fa più intensa. Il primo velo tremola e si sposta in fretta da una parte; irregolari cortine si ripiegano per poi dispiegarsi di nuovo e crescono in dimensioni e luminosità di minuto in minuto; archi e anelli mulinano attraverso l’orizzonte e toccano lo zenit in curve di luce radiosa.
Cammino e ascolto. Provo una semplice gioia di esserci, di sentire sulle guance ogni raggio di sole.
Con tutte le forze tento di dominare e comprendere lo stato d’animo nel quale mi trovo. Penso che la bellezza sia qualcosa di eterno e ogni volta che ci torno, qui in Carnia, mi sembra di tornare in una patria diversa. Qui riaffiorano, incerte, sensazioni che non ho mai provato prima d’ora. È quasi un andare a ritroso nel tempo: echi di frasi da lungo tempo dimenticate, qualcosa di molto familiare che si sta pian piano avvicinando.
Le montagne si stagliano con una nettezza che mette quasi paura contro un cielo turchese in cui si librano due o tre nuvole rosate. Si sente ogni tanto il rumore indistinto delle ali di un insetto e il ballottare di piccole pietre giù per il pendìo.
Sono colto da una specie di meraviglia. Il chiarore della tarda mattinata attraversa la rete metallica e mi illumina il viso. Sento un gemito alla mia sinistra. Giro lentamente la testa e vedo una giovane donna incamminarsi verso la montagna con un grosso zaino sulle spalle. Malgrado il peso che si porta dietro è sorprendentemente leggera sulle gambe e si muove con grazia. Ha un paio di pantaloni elasticizzati rosso corallo e una camicetta smanicata a fiori e foglie, celeste su fondo bianco. Si avvia per il sentiero verso il Pal Piccolo, vicino al confine nei pressi del Passo di Monte Croce Carnico. Siamo nell’Alta Valle del But e il Pal Piccolo – come il monte Terzo, il Vemola, il Ludin e il Pal Grande – è tra i luoghi in cui si è più combattuto qui nella “Zona Carnia” durante la prima guerra mondiale. Qui si sono viste cose miserabili e cose grandiose. Proprio qui, a pochi passi, ci fu una terribile guerra di posizione, con i reparti quasi attaccati fra loro, dietro muretti di pietre e sacchetti a terra, esposti al fuoco dei cecchini, dei lanciamine e dell’artiglieria.
Guardo Cima Avostanis e penso che poco lontano da questo sentiero, nel febbraio del 1916, veniva colpita a morte, curva sotto il peso della propria gerla, la portatrice Maria Plozner Mentil.
Mi avvio verso Timau e mi sembra quasi di sentirli gli spari e le grida di quei giorni. È come se da queste parti il tempo si fosse fermato, come se gli anni che ci siamo lasciati alle spalle fossero ancora nel futuro.
I vecchi alberi e i fitti cespugli fanno un’ombra ampia. Memorie aleggiano nel profumo dei fiori selvatici, nel ronzio degli insetti.
La luce autunnale, filtrata dalle cime degli alberi, gioca con l’ombra sulle spalle della mia giacca. Gli alberi alti sono spogli, ma i bassi faggi conservano ancora le loro foglie color rame. Il sentiero è tutto solcato dalle ruote dei trattori; lungo i margini cresce una tenera erbetta, da cui spuntano i rovi.
Annuso l’aria e continuo a camminare. Procedo timidamente, cercando di darmi il contegno disinvolto di uno che fa una passeggiata.
M’incammino su uno stretto marciapiede di mattoni malandato e attraverso un torrente bordato di pini, platani, querce bianche e ginepro.
Al di là dell’erba molto alta, si intravedono dei fienili isolati e delle piccole betulle dalle foglie esili, leggere e dorate. C’è anche una casetta rosa circondata da un muretto di pietra, il tetto ricoperto di tegole e sostenuto da seii esili colonne bianche. Non ho mai visto niente di più bello, di più perfetto, tranne forse le sfumature nei petali di certi fiori, che mi danno la stessa sensazione che provo ora davanti a questa piccola casa: un vago senso di perdita, di malinconia, che le cose brutte, rovinate, di solito non mi danno mai.
Sono a Timau, ma non c’è anima viva. La strada ha un aspetto molto solitari, non si sente il frastuono del traffico, non ci sono automobili.
Improvvisamente il rumore del vento mi arriva all’orecchio. Non è un vento forte, ma sembra avere una particolare densità.
Sollevo il viso e penso al tempo passato e a quelle emozioni e quegli stati d’animo che non posso più rivivere.
C’è una grande lastra in metallo che mi attira per la sua imponenza. È un bassorilievo dedicato alle portatrici carniche e racconta la morte di Maria Plozner Mentil. Il viso scolpito ricorda, nei lineamenti, la ragazza solitaria che ho incontrato prima al passo.
Non posso fare a meno di osservare questa scena, anche se mi riempie di angoscia e di un’inquietudine dolorosa a cui non so dare un nome.
Mi sento pervadere da una sensazione di calore e fisso quel volto giovane, dagli zigomi alti, con il naso lievemente schiacciato e le labbra piene.
Mentre sono fermo e osservo, passa vicino a me un uomo che alza le spalle e si incammina verso il cancello di una casa. Ha il volto magro, gli occhi stanchi, i lineamenti tirati. Torna dal lavoro, immagino.
Guardo il suo viso, senza parlare. Mi ricorda qualcosa, ma non so spiegarmi questa sensazione. Le foglie cadono intorno a lui, e a un tratto sento nel vento l’odore della legna bruciata.
(di Marco Crestani)