L’Aquila, una domenica pomeriggio
Arrivando all’Aquila da Roma, la si vede dall’alto dell’autostrada, e sembra soltanto una città di provincia italiana poggiata tra i monti. Proseguendo verso il centro dopo pochi minuti di assoluta ordinarietà, salendo da sinistra, si ha il primo impatto con la sua specifica realtà: il primo condominio giallo è tutto buchi e crepe.
Non ho grande esperienza di città martoriate da guerre o cataclismi, ma ho subito pensato a Sarajevo e Beirut: si rimane un poco interdetti, quasi storditi.
Poi ho proseguito con l’auto fino a giungere sotto un viadotto dove ho trovato parcheggio. Sono sceso e subito a sinistra, un altro condominio giallo, crepato, ma meno, con un vecchio alla finestra che fumava una sigaretta.
Si inizia la salita, e comincia da subito, come per effetto simbiotico, la commozione e lo stupore: ovunque transenne, crepe, buchi, cumuli di macerie, cartelli e cartelloni che avvisano di non oltrepassare, di non entrare, del pericolo di crollo, dell’azienda che provvede ai restauri, delle vecchie attività professionali e commerciali, di quella che fino a sei anni fa era la normalità, tradita dal sisma.
Ogni casa, un universo di particolari; ogni strada, ogni porta, ogni scorcio, segnala un’assenza; ogni assenza diventa una mancanza che per assurdo, o per legge transitiva psichica, diventa un piccolo lutto immaginario, il fantasma concreto di una storia interrotta all’improvviso: ventidue secondi trasformano, cancellano, storpiano, annullano un’esistenza; moltiplicata per ogni casa, per ogni storia, per le migliaia di persone che quel sei aprile del duemilanove erano là, a esistere come se la vita fosse quella roba che ogni giorno frequentiamo, trasformandola in abitudine, e che in alcuni rari momenti, al netto della tara delle fisime, dei tic, delle nevrosi, appare per quello che è: un privilegio.
Ho scattato decine di foto, combattendo contro la sensazione di spettacolarizzare un dramma; man mano che avanzavo però, questa lasciava spazio alla consapevolezza che volevo fissare quei sentimenti.
Una finestra coi panni impolverati da allora; le piastrelle di quattro piani di stanze da bagno che fungevano ormai da parete esterna di quello che rimaneva del condominio sbriciolato; un tavolo di cucina ancora apparecchiato; un buco al posto di una parete dove si vede ancora il divano; e avanti così, per decine e decine di macerie. Nelle vie del centro centro, in questa domenica agostana, si sente solo il silenzio totale e un fortissimo odore di calcinacci umidi. La sensazione di immobilità confligge con la nettezza del movimento sussultorio che l’ha provocata, creando così un paradosso armonioso, una convivenza stabilmente precaria.
L’incedere, me ne accorgevo dopo un po’, è silenzioso; quasi che anche il più piccolo rumore potesse disturbare il riposo rassegnato di chi ormai non vive più là. Avrei voluto visitare ogni strada, guardare ogni casa dentro e fuori, portare con me ogni particolare. Lo struggimento si mischia alla volontà di condivisione, di spezzettare in più parti possibili il rimasuglio così ancora dignitoso nonostante tutto – sì, perché è difficile spiegare a parole quello che senti quando sei là: non c’è pietismo, dolore, indignazione: non almeno allo stato brado; no, è qualcosa che confina con la comprensione – e di assumerne la propria parte, alleggerendone la mole.
Tornando verso il parcheggio noto un’auto stracarica di oggetti d’ufficio impolverati: è un anziano che li recupera, li carica in macchina e chissà cosa ne farà. Lo saluto e gli chiedo come va: mi racconta con tono bonario quello che so già: la tragedia, il dolore, la rabbia, la rassegnazione, l’abitudine. L’eloquio è quello del nonno, interrotto a tratti dal respiro reso affannoso dal sole d’agosto e dalla fatica di caricare oggetti pesanti.
Lo ringrazio, lo saluto e prima di salire guardo quell’orizzonte di gru e macerie tenute su da tiranti, a infondere speranza e ottimismo futuribili.
L’ultimo pensiero è che, prima del duemilanove non avevo mai visitato L’Aquila, ricordandomene soprattutto perché ogni inverno, era la città più fredda d’Italia.
Eppure, mentre il navigatore mi indica la direzione per l’autostrada, sento di essere anch’io un poco aquilano: per contraddizione, per fratellanza, per affetto; sapendo che mi aspetta un altro periodo di caldo africano a nord est, e che tutto passa, e che tutto lascia una traccia.