Incontri fraterni
Era una giornata caldissima, con un’afa opprimente ed ero di pessimo umore, irritato dal caldo e dagli insetti.
Oggi, ogni volta che ripenso a quel giorno, immagino che sarebbe stato tutto diverso se la mia Dyane 6 fosse andata in moto subito, come al solito. La storia sarebbe finita lì, dato che, forse, non ci sarebbe stata nessuna storia. Ma invece quella mattina la mia favolosa dea con carburatore completamente revisionato non ne voleva sapere di partire e continuava a tossire in modo secco e stizzoso quasi non ne volesse sapere di portarmi al fresco, lontano dalla città.
Mi sentivo giù di corda, e questo cominciava a rendermi nervoso. Decisi, così, di andarmi a comprare qualcosa da mangiare all’emporio dietro l’isolato.
Alfredo, il negoziante, era un uomo corpulento di mezza età garbato e florido con una grossa faccia a luna piena, capelli lisciati con la brillantina e candidi occhi infantili di un’incredibile tonalità di verde chiarissimo.
Comprai una pagnotta di pane pugliese, del prosciutto, due lattine di birra e un sacchetto di patatine piccanti. Alfredo mi porse il resto e si lamentò del caldo a cui era impossibile sottrarsi e che, disse proprio così, lo faceva vaneggiare. Secondo le previsioni, mi disse, una perturbazione conturbante (fu proprio questa la parola che adoperò) stava passando in diagonale proprio sopra di noi e sia il barometro che la pressione stavano scendendo a vista d’occhio con pessime intenzioni. Cose mai viste, ripeté più volte.
Mentre tornavo verso la Dyane tentai di risollevarmi il morale con con l’idea che la pioggia sarebbe arrivata all’improvviso, ma, per il momento, era solo un’illusione.
Chi non mi illuse fu la dea, che partì al primo colpo e prese il minimo quasi subito mantenendolo regolare. Il motore era bello pimpante e in autostrada non faticava a tenere i 110km/h. Solo quando imboccai i primi tornanti di montagna era di una lentezza esasperante e cominciai a preoccuparmi seriamente. Mi fermai allora in una piazzola nei pressi di un bosco e feci una sosta per bere.
Vidi una fontana a forma di conchiglia che portava impressa una croce. Che stranezza, pensai. Poi, osservando con più attenzione, notai che la fonte faceva parte del terreno annesso a un monastero e, senza un motivo particolare, imboccai il suo viale.
A ridosso dell’alto muro di cinta e accanto al portone d’entrata, sormontato da un arco, c’era un piccolo chiosco di libri. C’erano anche marmellate, pane, statuette, adesivi, immagini religiose, rosari e quadretti di legno con la scritta: Ave Maria, gratia plena.
Un frate sulla sessantina, con saio bianco e scapolare nero, mi vide sfogliare un libro di poesia di David Maria Turoldo, O sensi miei, una raccolta di poesie di cui avevo sentito parlare qualche anno prima.
«Ecco un libro da non perdere», mi disse con una voce profonda che sembrava provenire da un altro mondo.
«Lei ha avuto occasione di incontrare David Maria Turoldo?»
«Incontrare?» Il tono era al contempo sorpreso e divertito, indignato e accattivante. «Io lo conoscevo benissimo: la mia vita monastica è cominciata al monastero di Sant’Egidio a Fontanella di Sotto il Monte vicino a Bergamo, dove Turoldo ha scritto diverse poesie contenute in quel libro. Di là son venuto qui nel 1967 e ho dato una mano a costruire questo monastero: allora qui c’erano solo pascoli e boschi. Abbiamo costruito tutto quello che vedi, eccetto il vecchio fienile, facendo tutto da noi, come eravamo capaci, salvo un piccolo aiuto per l’impianto elettrico.»
Aveva le lentiggini e forse per questo sembrava più giovane di quanto doveva essere.
«Ma lei era un muratore o un uomo d’affari?»
«Un uomo d’affari. Per vent’anni ho fatto il broker di Assicurazioni a Milano.»
Ne dedussi che doveva avere circa settant’anni. Aveva un accenno di barba, non più di qualche ispido ciuffetto bianco. Sembrava un personaggio appena uscito da un film in bianco e nero.
«Perché ha lasciato Milano e gli affari per farsi monaco?»
Si raschiò la gola e abbassò la voce: «Vedi… parlare della vita spirituale è solo una perdita di tempo. Credo sia necessario viverla e poi, forse, se ne può parlare…»
Probabilmente da trent’anni ogni sorta di oziosi turisti l’ossessionavano con quella domanda. Mi sentii sciocco e un po’ imbarazzato.
«Ma perché non entri e vai in foresteria a chiedere un invito a pranzo al responsabile degli ospiti?»
«A pranzo?» Pensavo che il portone segnasse il limite invalicabile di un’esistenza segreta e medievale. «Non vorrei disturbare».
«Nessun disturbo. Prova a chiederglielo. Si chiama padre Rinaldo. Dopo il portone segui il sentiero tracciato e attrezzato e portati verso la grande porta scura…»
Alzai la mano per ringraziare quasi senza accorgermene.
«A proposito, io sono padre Ilario.»
Aveva gli occhi luminosi di un bambino. Aggiunse:
«Prima mi chiamavo Sebastiano.» Prima. Suonava strano, come se avesse detto «Una volta ero anche Sebastiano». Più tardi imparai che intendeva dire esattamente quello che avevo capito. Tutti i monaci un tempo erano qualcun altro. «Ora sono frate Claudio».
Passai dall’altra parte del muro. Claudio! E perché non frate Sebastiano?
Provai vergogna. Mi trovavo lì per pura curiosità, mi sentivo un guardone. Ma, peggio ancora, dubitavo della spiritualità claustrale e degli uomini che cercano l’isolamento per liberarsi dall’incertezza e dall’ansia, e non accettavo una fede che doveva essere protetta da una sorta di quiete illusoria. Ma non conoscendo il credo cattolico, ero incerto su ciò che avveniva in un monastero. In realtà avevo letto Eco, e immaginavo i monasteri come un residuo dei periodi bui della storia e vedevo i monaci come un anacronismo religioso.
A che cosa serve chiudersi in convento? Non può essere una fuga dal mondo? E’ possibile trovare la felicità in monastero?
Eppure gli strani riti che dovevano svolgersi lì dentro mi attiravano. Come mai mi lasciavano entrare?
Trovai la foresteria. Un uomo piccolo e grigio, trottando per le sale, spariva in una porta, s’infilava in un’altra, spuntava di qua e svaniva di là come il coniglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. A un certo punto capitò dalle mie parti. Parlava come si muoveva: guizzando velocemente. «Sei venuto per il pranzo?»
«Se fosse possibile.»
«Si, si. Bene, benissimo. Si.»
Sgusciò via di qualche passo, poi tornò indietro. «C’è una sala di lettura. Accomodati laggiù. Vado ad avvisare il cuoco che ci sei anche tu». Ed era già sulla porta in fondo alla sala.
Su uno scrittoio vidi un opuscolo intitolato “Fermati un momento”. Fermati, sosta un momento, solo un momento.
Nella sala di lettura c’era un solo scaffale di libri consunti, ma trovai Turoldo e me lo portai accanto al balcone che dava su un giardinetto interno. Silenzio e frescura. Non si udivano voci né passi, ma solo una musica lontana, proveniente dalle viscere dell’edificio. Era il suono di un clarinetto, un chiaro, strascicato lamento, una serie di accordi, una protesta desolata e ripetuta. Rimasi seduto a guardare fuori dalla finestra col libro aperto sulle ginocchia.
Quei monaci si erano rivolti a me come se mi conoscessero da molto tempo, come se molti anni prima io avessi detto loro: «Un giorno ritornerò. Non aspettatemi». Cominciai a leggere. O sensi miei. Mi soffermai su una poesia dal titolo Attesa:
Intanto ognuno chiede all’altro
onde sapere di sé, di cosa
sia per accadere
Ieri domani chissà quando.
Intanto ognuno sceglie
la sua parte, sale il palco.
Un canto tentato ogni giorno
che la sera tinge di amaro
mentre io vado scoprendo
ciò che è disgelato.
Vorrei mutare pianto
liberarmi dall’inutile inganno.
Alla finestra a piombo sul corso
si spegne il ronzare fermo
dell’asfalto. Nel cielo
immoto, nell’evento
che neppure ruina.
E forse d’alcun giovamento
è questo mio raffermo sperare.
Queste parole mi fecero venire in mente un ricordo di molto tempo prima. Quello che provavo era una specie di leggerezza indulgente, un fremito di buon umore e spensieratezza che, per il momento, ebbe la meglio su tutto.
Un’ora dopo, frate Francesco mi chiamò a tavola. Il pasto era una strana combinazione di frugalità monastica e picnic parrocchiale: su un piatto bianco mi venne servito un po’ di cavolo bollito, una patata lessa, qualche fico, pane di segala e un pezzo di musetto; da bere, acqua e un poco di vino. Non c’erano bis.
A quella tavola, che riuniva quattro ospiti e tre monaci, ero l’unico non cattolico. Mentre la conversazione spaziava dalle encicliche papali alle speranze di scudetto dell’Atalanta, io mi guardavo intorno con attenzione, certo che prima o poi i fraticelli, pur sapendo parlare di sport, avrebbero tradito il loro oscurantismo passando al latino o intonando una preghiera: era solo questione di tempo; e alla prima occasione avrebbero cercato di confutare la mia eresia o di rifilarmi un’indulgenza. Essi invece mangiarono i loro musetti con radice di cren e bevvero con gusto acqua e un poco di vino: esattamente come me. Poi, a un misterioso richiamo percepito soltanto da loro, si alzarono insieme e sparirono con gli altri ospiti. Ero di nuovo solo.
Ritornai sul balcone a leggere Turoldo finché padre Antonio, un uomo dalle guance allungate e piatte, non venne a chiedermi se volevo visitare il monastero. Mentre andavamo in giro egli rispose alle mie domande di novizio. Gli elementi essenziali della spiritualità dei Serviti sono il servizio, la devozione alla Madonna, la vita fraterna, l’invito alla conversione.
La sua barba rugginosa era folta e ispida, tracciata con precisione e piena di vigore. La bocca, tra quelle spine e aculei rossi, era morbida e recondita, gli occhi profondamente infossati, le orecchie appuntite.
«La sobrietà e la semplicità del complesso inducono gli studiosi a considerarlo come un esempio dell’architettura romanica povera degli ordini monastici: è quindi probabile che San Bernardo fosse un centro devozionale e cimiteriale della prima comunità locale», disse padre Antonio.
«Allora viva la semplicità.»
«La nostra è una vita dedita all’amore del prossimo. Dobbiamo sempre ricordarci che Gesù ci ha insegnato ad avvicinarci a Dio con una semplicità di cuore che ci rende simili ai bambini. La semplicità è flessibile e quindi duratura. Senza troppe cose attorno, abbiamo più tempo per noi. Quies mentis: la vita monastica è vita di silenzio, di semplicità e sobrietà, di ascesi e di lotta, compensata dalla pace interiore.»
Mi indicò le attività destinate alla sussistenza: l’allevamento dei conigli, l’orto e le piante da frutto. Da poco i frati, imparata l’arte delle vetrate a colori nella costruzione del proprio santuario, avevano cominciato a produrne anche per altre chiese.
«Fate tutto senza aiuto esterno?»
«Quasi. La maggioranza di noi durante il giorno pratica qualche mestiere. Ovviamente il nostro vero lavoro è la vita spirituale, ma c’è anche bisogno di cuochi, idraulici e taglialegna. Al mattino ci svegliamo alle quattro meno un quarto e alla sera andiamo a letto alle otto e mezza. Durante la giornata partecipiamo alle funzioni religiose, consumiamo i pasti e facciamo quattro ore di lavoro manuale, ma ci resta ancora tempo per il lavoro più duro: la meditazione. Videas, contemplare, admirare e… pregare.»
«Pensavo che la vita dei frati fosse molto sacrificata. Severa, si potrebbe dire.»
«Come puoi vedere, non siamo preti da discoteca, ma alcune restrizioni sono venute meno. La prima volta che sono entrato qui si osservava la regola del silenzio e si parlava esclusivamente a segni.»
«Quali segni usavate? Io ne conosco alcuni usati in montagna dai boscaioli.»
«Ormai li ho dimenticati quasi tutti. Ricordo solo qualche segno descrittivo. Per esempio, cosa vuol dire questo?» Le dita della mano destra trottavano sul palmo della sinistra.»
«Corri su per la collina a prendere un secchio d’acqua.»
«No, no: il cane corre dietro al gatto in chiesa.»
«Mi sembra sbagliato il modo di fare il cane: si fa con quattro dita e non con due. Comunque, presumo, il senso del silenzio è che ogni scambio di pensieri complessi deve avvenire fra l’uomo e Dio anziché tra i monaci.»
«Può darsi. Tuttavia, molto semplicemente, se uno deve usare le dita parla assai meno. Anche adesso non sprechiamo parole. In refettorio, per esempio, osserviamo ancora il silenzio monastico, e mentre si mangia un fratello ci fa una lettura.»
«Si tratta di commenti alla Bibbia o alle sacre scritture, per esempio quelli dei Padri della Chiesa?»
«Abbiamo appena finito Teodoreto e Giovanni Crisostomo. Avevamo cominciato Antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, ma poi abbiamo votato di sospenderlo perché non lo capivamo. Di solito votiamo il libro da leggere e poi, a un terzo e a due terzi della lettura, rivotiamo per decidere se c’interessa continuarlo.»
Nel corso della visita Padre Antonio mi presentò i vari monaci, tutte persone cordiali in modo schietto e aperto, niente affatto ascetiche o esteriormente devote. Non davano l’impressione di volermi asfissiare con la loro dedizione a Dio e nemmeno erano impersonali o freddi, come aveva sentito dire. Anzi, i più vecchi sembravano avere dieci anni in meno rispetto ai laici della stessa età. I musi lunghi e le facce angosciate erano poche. Gli anziani, che si muovevano con molta calma, dimostravano una vita e uno spirito particolarmente intensi. Mi resi conto che stavo cercando di cogliere sui loro volti qualcosa d’irreperibile all’esterno di quelle mura, forse qualcosa di occulto, trascendentale, persino mistico. Ma vedevo soltanto serenità: anzi, più che vederla, direi che la percepivo.
Quando chiesi di visitare un dormitorio il mio accompagnatore tardò a rispondermi. Raccolse una foglia e l’arrotolò. «Non c’è alcun segreto nelle stanze, ma alcuni fratelli non vogliono essere disturbati. Molti vengono qui proprio perché è possibile raccogliersi e pregare senz’alcuna interferenza. Monaco vuol dire ‘che vive solo’». Aveva quasi un tono di scusa, «I fratelli che hai conosciuto svolgono attività che li mettono a contatto coi visitatori, ma altri preferiscono la solitudine. Uno, per propria scelta, vive nel bosco da solo. Alcuni osservano ancora la regola del silenzio. Devi capire che per noi la quiete e la calma sono molto importanti.»
«Un uomo che fa rumore non può sentire Dio?»
«Non pretendo di saperti rispondere.»
«Vorrei chiedere però un’altra cosa, sempre che sia concesso rispondermi.»
«Qui non ci sono amanuensi che copiano vecchi manoscritti segreti…»
«Lo so: ho visto un frate che riparava una fotocopiatrice Sharp. No, non si tratta di questo. Vorrei chiedere a uno di voi perché si è fatto monaco. Penso sarete arcistufi di sentirvi fare questa domanda, ma gradirei molto avere una risposta.»
«Ti fermi qui questa notte?»
«Non pensavo davvero che si potesse. Volentieri.»
«Allora dopo cena vedrò di mandarti qualcuno, ma non sarà facile.»
Il pasto della sera consisteva in zuppa di verdura, piselli, riso, pane e budino alla vaniglia. E sempre in quantità sufficiente, ma non di più. A tavola, l’interlocutore principale della conversazione fu questa volta un visitatore di Bergamo, convalescente da un’operazione alle coronarie, ch’era venuto a trovare il figlio novizio. Anche se parlavamo tra il serio e il faceto, tutti eravamo toccati dalla tranquilla presenza di quell’uomo e dall’imminente addio fra padre e figlio.
Padre Antonio mi chiese di accompagnarlo al vespro, e mentre ci dirigevamo alla cappella restò in silenzio. Probabilmente si stava preparando. Mi ricordai di essere in jeans e maglietta. «Sono vestito così», dissi.
Mi rispose senza nemmeno voltarsi: «Che importa? Piuttosto, saper cantare intonati è importante: sei capace?»
«No, sono proprio negato.»
«Allora canta piano. Dio non ci fa caso, ma tutti noi si.»
I monaci, in fila, entravano silenziosi nel grande santuario aperto, sedendosi gli uni di fronte agli altri ai due lati del coro. A un segnale che io non sentii, si alzarono tutti in piedi e iniziarono l’antifona di un canto monodico. Solo i più giovani ed io leggevamo il libretto degli inni. I venticinque monaci riempirono la chiesa col loro canto delicato e profondo, mentre i raggi del sole al tramonto accendevano i colori delle vetrate. Poteva tranquillamente essere l’anno di grazia 1267.
Guardai i loro volti. Serenità. Che cosa ardeva in quegli uomini che non ardeva in me? Una diversa concentrazione, oppure qualcosa di esterno? Una mancanza o un eccesso di qualcosa? Alla mia destra un frate sedeva impassibile, senza battere ciglio, e le sue labbra, le più piccole che avessi mai visto, giacevano immote. Pensai: «Sapessi dov’è in questo momento, conoscerei questo posto».
Null’altro che canti e silenzi. Nessun sermone, nessuna promessa di salvezza, nessuna minaccia di dannazione, nessun invito a comportarsi meglio. Non sono un’autorità, Dio me n’è testimone, ma se c’è un modo di parlare al Grande Orecchio Primordiale – sempre che un Orecchio del genere esista – la musica e il silenzio sono certo il migliore.
Alla fine tornai al balcone. Silenzio, salvo i suoni del buio imminente: raganelle, trilli, usignoli. Ho letto che gli Indù annoverano trecentotrenta milioni di dèi. L’importante non è l’esattezza del conto quanto la molteplicità dell’essere divino che quella sera sembrava dovunque: bastava ascoltare. Rimasi seduto a guardare nel buio. Alle mie spalle udii qualcuno chiamarmi per nome.
«Mi hanno detto che hai qualcosa da chiedere», esordì. Nessuno dei soliti convenevoli prima di entrare nel vivo dell’argomento.
Un uomo da assalto frontale.
Raccolsi la sfida: «Vorrei sapere perché un uomo decide di diventare frate. Le risposte che ho sentito oggi mi sono le ho sentite come un catechismo recitato a memoria.»
«Non è una domanda facile: quanto meno non lo è la risposta.»
«Dimmi cos’è successo a te, come sei arrivato qui.»
«Sono qui da cinque anni. Prima facevo il militare di carriera, e dopo sei anni di servizio ero ben avviato a diventare un maresciallo dell’esercito. Prima ancora sono stato un giocatore di basket di buon livello: avevo studiato fino alle superiori, ma in modo molto disordinato. Ma mi sono istruito anche in altre maniere, per esempio girando l’Europa in autostop una volta nel 1988 e un’altra volta nel ‘89. In quest’ultimo viaggio sono arrivato fino a Capo Nord e mi sono fermato sei mesi a lavorare in un paesino vicino a Tromsø.»
«Jack Kerouac? Sulla strada?»
«Qualcosa del genere. Tornato a casa mia, a Padova, ho fatto il manovale in diversi lavori di scavo. Poi mi sono procurato i documenti d’imbarco per la marina mercantile. Era difficilissimo averli: ho fatto il diavolo a quattro, e poi non li ho mai usati.
«Perché no?»
«Mi interessava di più l’esercito, ma ero anche molto inquieto e temevo di trovarmi intrappolato su una nave a morire di noia e di monotonia. Mi piacciono i cambiamenti.»
«I cambiamenti? Qui? Di tutto ciò che si può trovare qui, penso che i cambiamenti siano la cosa meno probabile.»
«Intendo una crescita e un cambio di marcia. Attualmente lavoro quattro ore al giorno come aiuto elettricista. Premetto che rischia di essere solo filosofia, ma il frate e l’elettricista hanno qualcosa in comune: entrambi lavorano a convogliare un flusso d’energia da una fonte principale a una serie di piccole prese. Eppure, malgrado i tentativi d’integrazione, il lavoro da elettricista è ben diverso da quello spirituale.»
«L’uno e l’altro non sembrano comportare molti cambiamenti.»
«Faccio anche il guardiaboschi del monastero, se così si può dire: bado al terreno incolto, provvedo a che la foresta non subisca danni. Solo per piacer mio, ho raccolto in erbario tutti i fiori di campo. Senza contare i fiorellini blu e rosa che non riesco a classificare, ne ho identificate circa duecento specie. Ora son passato agli arbusti. E fin dal giorno che sono arrivato qui ho cominciato a osservare gli uccelli. Passo un sacco di tempo a leggere e a meditare nel bosco: ed è lì che avvengono i veri cambiamenti.»
«Che cosa leggi?»
«Nel bosco leggo libri di storia naturale, per esempio Plinio il Vecchio.
Leggo sempre le Sacre Scritture e i libri di teologia. Adesso sto leggendo uno studio sul movimento carismatico». Rimase un istante in silenzio. «C’è qualcosa in tutto questo che ti fa capire perché sono qui?»
«Ogni elemento è parte della risposta.»
«Fin da giovane ero affascinato da ogni sorta di esperienze spirituali profonde. A diciassette anni – ora ne ho quarantadue – avevo già pensato di fare il monaco, non so bene perché: so solo che ero angustiato da un forte senso di incompiutezza. Ma in apparenza quel desiderio dopo qualche tempo scomparve. Fu allora che cominciai a viaggiare, prima imparando a viaggiare, poi viaggiando per imparare. Più tardi, mentre ero militare, cominciai a desiderare una vita, e una morale, non tanto basate sulla costrizione di ciò che si deve fare per vivere, quanto sull’aspirazione a una vita spirituale profonda. Quello fu un momento davvero sconvolgente. Pensai persino di rivolgermi a uno psichiatra, ma dopo un paio di mesi smisi semplicemente di chiedermi se ero pazzo.»
«Come mai?»
«Non lo so. Forse sono guarito quando mi sono messo a lavorare mezza giornata coi Francescani di Assisi; sono frati che fanno molta attività comunitaria rivolta alla gente. Così ho avuto l’opportunità di ficcare il naso in quel mondo che spesso avevo immaginato. Malgrado quell’attività fosse più secolare che monastica, restai due anni coi Terziari Francescani per capire se volevo davvero entrare in monastero. Poi lavorai coi Frati Minori del Vangelo, che vivono comunitariamente in totale povertà. Questa esperienza maturò la mia decisione: ciò che avevo visto della vita religiosa mi piaceva. Allora cominciai a capire che il mio problema non stava nella sfiducia in me stesso, ma nella paura di ciò che realmente volevo.»
Si alzò il saio per grattarsi una gamba. «Intendiamoci, non c’era nulla di male nell’andare in giro su una jeep in una qualche missione all’estero. Quello che colpiva di più era la popolazione civile che viveva anni luce più arretrata di noi, bimbi che per una bottiglietta di acqua rischiavano di farsi mettere sotto dai pesanti mezzi militari». Si fermò. «Mi sono dimenticato di quello di cui stavamo parlando.»
«Della fiducia in se stessi.»
«O meglio, della mancanza di fiducia. Da bambino cercavo sempre qualcosa al di là di me stesso, una specie di armonia che desse un senso alla vita. Qualunque grado di comprensione abbia raggiunto attualmente, penso di aver cominciato a sfiorare quel certo « qualcosa » quand’ero nell’esercito e ancor più in seguito, aiutando i frati
ad Assisi. Man mano che mi allontanavo dalle mie cose e dai miei problemi mi avvicinavo a questioni più grandi di me: ma solo venendo qui ho trovato una vera armonia. Non intendo un’armonia totale ed eterna: voglio dire che la sento più qui che in ogni altro posto.»
Tacque un istante. «Stasera posso elencarti dieci ragioni della mia scelta, domani posso trovarne altre dieci. Non c’è una risposta definitiva. Spero che la cosa non ti deluda. »
«Prova a dirmi che cosa ti piace di questa vita.»
«Mi ha sempre attratto la vita eremitica – e non ‘ermetica’ ma solo per brevi periodi. Mi piace andare nel bosco da solo e poi tornare. Qui nessuno ti chiede ‘Che ti succede? Sei di nuovo fuori strada?’ Vivere da questa parte di quel muro laggiù, che, tra parentesi, è una cinta aperta, non significa essere tagliati fuori. Qui non c’è il vuoto. Tempo fa, a un giovane novizio che se n’è andato prima di prendere i voti perché non riusciva a trovare stabilità – e intendeva dire una situazione statica – ho detto che questo posto è vivo: qui la gente cresce. E’ come se i frati cominciassero a metter su foglie e germogli. Qui non sfuggi a ciò che sei, perché tu sei sempre tu. In realtà, qui i problemi personali quasi sempre s’ingigantiscono- la vita strettamente comunitaria e meditativa tende a gonfiarli.»
«E infine com’è che hai deciso di fermarti?»
«Un giorno il padre di un amico mi ha detto: ‘Se non fai ciò che vuoi da giovane, non lo farai mai più’. Allora ho smesso di aspettare una certezza che non veniva mai.»
«Un esperimento di ben cinque anni: era la mossa giusta?»
«La mossa giusta? Una delle mosse giuste. La migliore. Ormai ci credo abbastanza da prendere il voto permanente a ottobre.»
«Non hai ripensamenti?»
«Eccome, d’ogni sorta: li seguo finché riesco a capirli. Ho anche avuto qualche piccolo segno, per esempio la storia dei Led Zeppelin. Amavo molto ascoltare i Led Zeppelin. Dopo due anni che ero qua, un giorno che li stavo sentendo mi sono alzato e ho spento lo stereo. Immagino perché ormai i Led Zeppelin siano troppo complicati per me. I miei gusti si sono orientati verso cose più semplici ».
Volevo ancora fargli una domanda, che mi sembrava però inopportuna. Mi decisi ugualmente. «Vorrei chiederti un’ultima cosa, un po’ per curiosità e un po’ per cercare di immaginarmi da frate». Lui non rise, ma io si. «La mia domanda, insomma, sarebbe questa: come fai a resistere senza donne?»
«Non è che resisto: è una scelta». Di nuovo rimase in silenzio. «Talvolta, lavorando nei boschi, incappo in una coppietta che fa merenda nei prati o che passeggia mano nella mano. E ogni volta, ricordandomi dove sono, m’intristisco un po’. Sento una specie di mancanza. Non tanto di una donna quanto di un bambino, mi sarebbe piaciuto avere un bambino e questo ciò che mi manca.»
«E cosa fai?»
Le risposte arrivavano con una certa lentezza. «Mi limito a osservare i ricordi e i desideri di compagnia – quelli distruttivi – e a lasciare che passino. Aspetto. Non mi faccio prendere dal panico,
Sono i momenti in cui il vuoto è più intenso.»
«Questo è tutto?»
«Questo è l’inizio. Poi trasformo il dolore dell’assenza in un’offerta a Dio. Talvolta è tutto ciò che ho da offrire.»
«Intendi la tua rinuncia?»
«Ti sembra niente?»
«Mi sembra la rinuncia a un dono. Amare Dio così tanto da rinunciare al proprio figlio unigenito non generato.»
Frate Renzo sorrise. «Dico solo che cerco di trasformare una potenzialità distruttiva in una forza benefica. In questo senso, le attrattive esterne fortificano. E’ un altro modo di avvicinarsi a Dio.»
«Qualcun altro oggi ha usato la stessa frase per indicare un modo d’avvicinarsi a Dio. Mi suona uguale a quello degli Indù che rinunciano al mondo e si allontanano da tutto, compresi i desideri, per arrivare più vicini al loro dio.»
«La semplicità rivela gli universali che governano la nostra vita. I beni materiali possono ottundere la percezione delle cose più grandi. Qui ci sforziamo di liberarci dalla cecità, dall’arroganza e dall’egoismo.»
Suonò la campana della compiéta, la preghiera serale, ultimo gesto della giornata dei monaci. Nel buio pesto non vedevo più il mio interlocutore, ma riuscivo ugualmente a sentirlo: «Comincio da questa verità frammentata che sono io. Inizio dall’uomo totalmente a pezzi: ma i pezzi ci sono tutti. Poi lavoro a svuotarmi. E a diventare integro. Cercando le vie che portano a Dio, succede che alcune parti di me si rimettono insieme. In questa unione io mi rigenero.»
«Pare di sentir parlare di karma.»
«Perché no?». Dopo una breve pausa riprese: «Venendo qui cerco la serenità, una realtà interiore in divenire che ogni giorno cresce, che si conquista con le scelte e i fatti della vita. La serenità è una migliore coscienza e conoscenza di se stessi e del mondo che ci circonda. La coscienza di vivere in pace ci fa trovare la giusta chiave di lettura di quello che ci ruota intorno. Quando raggiungo questo tipo di calma, smetto di sentire solo me stesso e comincio a sentire il mondo al di là di me. Poi sento qualche cosa d’immenso».
(Marco Crestani)