In val dei Mòcheni
Appena imboccata la valle e passato uno strano ponte di legno, ho quasi la sensazione che il tempo, da queste parti, si sia fermato da sempre.
Ci incamminiamo carichi dei nostri zaini pesanti come macigni.
Il vento ha ripulito il bosco e le montagne. Niente è cambiato dall’ultima volta che ci sono stato. I sentieri, i corsi d’acqua e i pascoli, tutto è rimasto come allora, tutto fluisce dai ricordi e riprende il suo giusto posto qui nella realtà.
Per anni ho urlato dentro di me il richiamo di questi luoghi, ho sentito un bisogno immenso di rivederli, e adesso sono qui, finalmente, e non voglio, non posso trascurarne il minimo dettaglio. Così via via faccio mie tutte le forme e i colori che lo sguardo riesce ad abbracciare, e assaporo la pace della natura che mi circonda, anche quella dentro di me.
Siamo in val dei Mòcheni, sopra Palù del Fersina, in mezzo a dei larici secolari che mettono paura ogniqualvolta il vento taglia come una lama di coltello. Raggiungiamo le baite Laner e dopo una breve salita incrociamo la vecchia croce di legno che sembra essere qui prima degli uomini. Ogni punto riparato è coperto di vegetazione e ci sono grandi alberi che sembrano quasi crescere sulla nuda roccia
È sempre bello fermarsi qualche minuto a osservare le nubi vorticate dal vento e poi i mughi, i rododendri e le rocce. L’umidità si leva dalla rugiada che ammanta l’erba e il bagliore del sole filtra tra le fronde scintillanti degli alberi.
Dopo un po’ arriviamo in una piccola radura tappezzata di foglie morbide e di sassi coperti di muschio, ma prendiamo subito per la mulattiera militare che porta fino al rifugio. Tutto scorre piano attorno a noi. Non esiste la frenesia.
Massimo mi fa notare che qui dove camminiamo c’era un punto di appoggio per le truppe austroungariche a presidio del fronte. Mi racconta che dopo il 24 maggio del 1915 il Lagorai si trovava a ridosso della linea del fronte e qui era tutta terra di nessuno, “terra nascosta tra le montagne, luoghi riparati in cui c’era soltanto il sibilo di venti gelidi”.
D’improvviso veniamo investiti frontalmente da un vento impetuoso che ci sbatte in faccia una gragnola di ghiaccioli pungenti. I piedi sembrano muoversi nel vuoto, senza appoggi. Provo una sensazione di straniamento e per un attimo perdo la nozione del tempo. Non penso a niente. Il tempo ha cessato di esistere, al pari dello spazio.
Proseguiamo per il sentiero e, guardando la chiostra delle montagne di porfidi e rocce eruttive che ho davanti, mi sento scivolare attraverso le ère geologiche fino al tempo in cui una nuova terra prendeva forma e quasi rivedo i bagliori, i lampi come scoppi di bombe e la danza dei fulmini che forma una corona.
A un certo punto il mio sguardo è catturato da un cartello che ricorda la permanenza di Robert Musil a Palù del Fersina durante la guerra del ’15-’18.
Mi avvicino a leggere e dopo qualche minuto arriva anche una coppia di escursionisti. Parlano in tedesco di qualche cosa. L’uomo parla sottovoce con un tono profondo di basso e la donna gli risponde con una voce incerta e titubante.
Dopo qualche minuto siamo lì che parliamo di magnifici alberi e sentieri tracciati. La donna sembra conoscere bene la storia di questi luoghi e mi racconta dei Mòcheni e degli alberi di risonanza, abeti speciali che possono essere utilizzati per la costruzione di strumenti musicali e che si trovano proprio qui, da queste parti.
Ha una faccia sottile, vivace, con denti grandi e luccicanti. Parla come se stesse traducendo a vista da un antico formulario e le sue parole sono prive di sentimento.
Leggo ancora sul cartello di quando Musil andava a pescare, poco distante da queste creste di roccia, oltre la forcella. È un appunto tratto dai Diari, un frammento che resto lì a leggere e rileggere.
Anche noi per esempio andavamo a pescare al lago d'Ezze, giù nella valle. Ma come si fa questo? Si assicura il posto boschivo con una o due pattuglie. Si mettono gli ami nel posto in vista dal pendio di fronte, si incastra la canna tra le pietre e ci si mette al riparo. Solo quando il pesce ha abboccato lo si prende. Poi si marcia indietro con sicurezza.
Non so perché, ma pensare a un soldato che, mentre la guerra infuria, pesca da solo tra queste montagne mi fa venire in mente un valzer suonato da un vecchio grammofono.
Dopo qualche minuto riprendiamo a camminare, ma le mie gambe non ne vogliono sapere e le trascino scosse da spasmi. Stiamo per arrivare alla forcella e comincio a intravedere il lago d’Ezze.
Ci fermiamo di nuovo. Sembriamo imbrigliati dalla stanchezza. Abbiamo ancora bisogno di un po’ d’aria fresca per riprenderci.
Mi sembra di vedere uno spirito fraterno, quasi un’ombra. Siamo nei pressi di un piccolo rilievo roccioso che costeggia una distesa di pietrame. I sassi sono scuri per l’umidità della notte. Lì vicino, ben visibile, c’è anche una piccola scala scavata nella pietra. Sul primo gradino spicca un mazzetto di fiori ormai secchi tenuti assieme da un nastro con un dei fogli di carta brunastra infilati sotto.
Resto in piedi, immobile ed esitante, come attonito. Dopo qualche secondo mi avvicino, attirato dalla carta e dalle parole stampate che intravedo appena. Sono pagine strappate da un libro piene di note scritte a matita. Per curiosità le prendo in mano e scorro le prime righe.
Giunta la sera si riunivano tutti nella piccola canonica dove avevano affittato una stanza per la mensa comune. D’accordo, la carne che arrivava dopo lungo cammino solo due volte la settimana, spesso era un po’ andata a male, e non di rado si restava leggermente intossicati. Tuttavia, appena faceva buio, arrivavano tutti, inciampando con le loro piccole lanterne per le vie invisibili. Perché ancor più che per gli avvelenamenti soffrivano per la tristezza e l’abbandono, anche se era così bello là. Li annegavano nel vino. Un’ora dopo che si erano ritrovati, nella stanza della canonica s’addensava una nuvola di tristezza e di musica da ballo. Il grammofono girava come un carretto di latta dorata su un prato molle, disseminato di stelle stupende. Non si parlavano più, ma parlavano.
È parte di Grigia, una novella che Robert Musil scrisse ispirandosi al periodo trascorso in Val dei Mòcheni sulla linea fortificata a est di Levico. Un appunto in rosso sulla parte destra del foglio spiega in modo schematico che il protagonista della storia è un uomo medio travolto da eventi e che qui non si parla di guerra, ma di una spedizione mineraria tra boschi incantati “di larici antichi ricoperti di tenero verde su un pendio verde smeraldo”.
Sotto il muschio di certo vivevano cristalli bianchi e viola. Il torrente una volta in mezzo al bosco scorreva su una pietra così da sembrare un grande pettine d’argento.
Musil è un esploratore paziente di labirinti che cerca di scavare nel nesso tra vita e scrittura. Non fugge dalle domande difficili, ricerca di continuo le possibilità della lingua con uno stile che spezza i legami logici e descrive un mondo che oscilla fra razionalità e irrazionalità, tra lo slancio emotivo della disperazione esistenziale e la freddezza analitica dell’uomo di scienza.
È chiaro che è tutta una metafora e il valore simbolico e traslato della guerra è assoluto in ogni singola parola.
Una mosca muore: guerra mondiale. […] Da una delle numerose lunghe carte moschicide che pendono dal soffitto è caduta una mosca. Giace sul dorso. In una pozza di luce sulla tovaglia cerata. Accanto a un vaso alto, con piccole rose. Fa degli sforzi per tirarsi su. Le sue sei zampette si tendono talvolta verso l’alto ripiegate, aguzze. Diventa più debole. Muore tutta sola. Un’altra mosca vola fin da lei e poi via di nuovo.
Forse, penso, la mosca che muore dopo essere stata catturata dalla carta moschicida è anche l’uomo del tempo di Musil. Un uomo contrastato e imprigionato da una retorica che legittima moralmente i conflitti armati e da una civiltà che ha assuefatto le menti alla violenza di massa.
Tra le righe scopro motivi profondi di quegli anni in cui la morte era un fatto abituale e insignificante. Musil sa capire quanto la forza di un’immagine è in grado di arricchire e sente poco la grandezza in questa guerra mondiale.
Leggerlo, qui, è una condizione solenne ed emozionante. Sento le lacrime scorrermi per le guance, prima ancora di sapere che sto piangendo.
(Marco Crestani)