Il tempo morto
Il tempo soprattutto va contraddetto,
per cercare il tuo ordine.
(b.p., l’ordine dello scarabeo)
Il tempo morto, a pensarci bene non significa niente.
Andiamo avanti per convenzioni, ormai. E altre: è morto col tempo; è un morto senza tempo; i morti del tempo — i tempi del morto (si dice?!); col tempo si vedrà; chi ha tempo non cerchi tempo; e altre cinquanta espressioni che non c’entrano quasi per niente.
Il tempo andato, il tempo inutile, il tempo necessario, il tempo perduto.
Non abbiamo più tempo; tempo ce n’è da vendere. Ma dove si compra?
Ora, ognuno cerchi esempi nella propria memoria.
L’alibi peggiore e più diffuso — per non dover approfondire — è proprio quello di dire «adesso non abbiamo tempo, ma un’altra volta…». Un’altra volta non c’è, si ricomincia a perdere tempo, a tirarla per le lunghe, così di nuovo scatta l’alibi.
«Io, avrei voluto.»
«Anch’io; ma vedi come vanno le cose: non c’è mai tempo.»
No. Spesso (sempre?) si è tranquillizzati dal fatto che tanto non arriveremo all’estremo di dover dire tutto il nostro pensiero, e così nascondere che non abbiamo altro da manifestare, perché non lo abbiamo mai (o ancora) pensato.
Mi autodenuncio. O più semplicemente, ammetto: questa idea del tempo limitato mi ha spesso (non sempre) tranquillizzato; mi ha tolto la paura di restare a secco, di parole e pensieri, spiaggiato come un cetaceo.
In realtà poi qualche sussulto lo avevo, e con un aiutino, dopo un po’ di riscaldamento nervoso, si può riprendere il largo: così il tempo è veramente passato. Di nuovo: fino alla prossima volta. Per correttezza, non fatemi più parlare.
È vero che il tempo per noi non è illimitato; o lo è per altre dimensioni, non-biologiche.
La storia, una pallida invenzione, resistente tuttavia.
La memoria. Mi affido alla vostra (?); la mia ha un orizzonte limitato dal tempo.
I “tempi morti della vita quotidiana” sono un’espressione comune e dunque comprensibile.
Sono un alibi trasparente quando si tratta di valutare i movimenti in una città. La ricerca di uno spazio di parcheggio, l’intasamento fra un isolato e l’altro, un ritmo generale di «rallentando», arroganze, qualche bestemmia e qualche insulto prendono il volo; la coda a uno sportello; un dialogo impossibile con referenti possibili. Ma ci mettiamo qualcosa di più privato per allargare la prospettiva: prima di uscire bisogna farsi la barba, o truccare gli occhi (forse è meglio). Già fatto, va bene.
È quasi difficile da spiegare. Ecco il paradosso mentitore: se tutto fosse più scorrevole e disinvolto si potrebbero fare tante cose in più, essere più produttivi, avere più tempo libero per i passatempo (ahimè, chiamati anche ammazzatempo). Invece la quantità di cose che dobbiamo fare si è automaticamente commisurata alle condizioni. Facciamo quanto corrisponde (minima la tolleranza in + o in -) alle possibilità consentite. Non avremmo mai cose di più da fare! Siamo imprigionati dalle logiche: un tentativo di fuga, di solito pallido (per altri: squallido), su di una via di scampo, farebbe di noi dei ribelli, irregolari, barboni, falliti, incontrollabili, soprattutto “senza senso del tempo”, o “impropriamente legati al tempo”.
Insomma la quantità di vita, di lavoro che siamo in grado di fare si assesta in automatico sul “tempo a ostacoli” delle necessità.
Il fatto resta così: nell’esecuzione del lavoro ci sono tempi morti. Come si stava a dire prima. Decapitati. O altro.
Una cosa, vediamo, va fatta: non credere più agli alibi. Anche ammettere una pigrizia infinita. Rassegnarsi alla marginalità, come dire “bolle del tempo”. Cadere nella rete dei ritmi dell’ispirazione (se sei scrittore, artista, poeta, o persona di teatro) che ha tempi impossibili, o improbabili, diciamo atemporali.
Al tempo morto bisogna rassegnarci, perché è una menzogna assoluta: è uno di quelli che uccide, ma senza capriccio, bisogna dirlo; proprio per sistema.
Con grande probabilità anche giocare con le metafore è un gioco a perdere: “perdere tempo”.
«Tempo!», ha detto il ragazzo con il fischietto in bocca; poi si è ripreso il pallone, e ci siamo fermati.
Era anche sera, ed era tempo di tornare a casa; ma allora eravamo sicuri del mattino dopo.