Il peso sospeso delle parole
Capite che il tempo è un elemento poroso,
elastico, che si presta mirabilmente a
un certo tipo di manifestazioni…
Julio Cortázar (Berkeley, 1980)
Avevo voluto strafare: tra le dita reggevo una quantità esagerata di calici vuoti con gli steli rovesciati e trattenuti per il fondo. Udivo di sotto la frenesia degli amici in vena di lasciarsi andare. Scendevo le scale che conducevano in cantina. Un passo falso e mi ero sbilanciato su un gradino smussato: oddio! Cadendo avevo tentato di sorreggermi al corrimano della ringhiera, i cristalli avevano sbattuto sul ferro, qualcuno si era spezzato, ferendomi. Nella caduta avevo rovesciato il vaso di gerbere all’angolo del pianerottolo ammezzato, l’acqua dei fiori e il suo sentore fetido si erano sparsi. Avevo sbattuto la faccia e mi doleva la bocca. Restai riverso per un tempo indefinibile, impaurito dal piccolo disastro, il cuore pulsava più forte. Tastando intorno, cautamente, mi resi conto con una certa emozione che stavo nel letto. Morbidamente: assaporai la consistenza cedevole del materasso. Provavo un senso di benessere, strano, dolceamaro: mistero del sonno, nel suo dominio assoluto neppure i sognatori hanno il minimo credito. Avvertii una specie di consolazione dentro: si affacciò il pensiero bello di Alberta. Ma intriso di un senso di pericolo. Ero già morto da troppo tempo. O almeno mi consideravo troppo invecchiato o troppo rassegnato per immaginare che sarebbe entrata in scena una lei. Capita, ad un certo punto, che un uomo solo – anche un po’ deluso – sprofondi nella propria vita come su un divano sformato dall’uso. Per abitudine azzarda perfino a dire che ci sta comodo.
Non avevo nemmeno più voglia di pensare all’idea di ingegnarmi ancora in quella specie di caccia, meglio adatta ai ragazzi. A volte risultavo addirittura patetico a me stesso: succedeva se incrociavo qualcuna che danzava nella propria bellezza, diciamo pure insolente, o anche quando mi imbattevo in una creatura del tutto comune, salvo qualche particolare (una donna non necessariamente avvenente, ma pervasa da un ascendente che magari lambiva me solo). Ecco: allora indossavo una faccia sprezzante da maschio stufo di esperienze. Giravo platealmente lo sguardo da un’altra parte. Come se dovessi farla sentire ridimensionata, quella donna, e che lei se ne dovesse accorgere e risentire, quasi per una smaccata punizione a causa della sua insopprimibile colpevole attrazione. Invece Alberta mi era stata recapitata dal destino, per posta. Stava tranquillamente in fila, proprio davanti a me, in uno di quei giorni all’Ufficio Postale: quando l’affermazione che l’uomo è un animale sociale pare convincente solo per certi studenti di filosofia francese da ghigliottina. Alcuni clienti, anziani e coperti dall’impunità del branco, sparpagliavano infervorati le rituali cattiverie sui dipendenti pubblici. Di contro gli impiegati, non certo sordi, subivano la fiacchezza operativa delle affrancatrici, la viscosità delle procedure e ruminavano in silenzio.
«Non capisco proprio». Avevo rivolto io la parola ad Alberta, sbottando seccato: «Stranamente i vecchi sono i più impazienti. Non li sopporto proprio…Spero di non diventare mai come loro. Neanche avessero da correre al lavoro».
«Hanno meno tempo a disposizione da vivere. Avvertono che il loro tempo sta scadendo e vale di più» aveva ribattuto lei, spiazzandomi con un sorriso conciliante. Avevamo cominciato a frequentarci così, con circospezione: un caffè insieme, un tastarsi a fiuto. Sapevamo bene che al massimo potevamo unire due solitudini. Ci eravamo scambiata qualche ovvietà formale, certo inadatta ai fidanzatini di Peynet, ma era avvenuto: per gradi di normalità, per sondaggio di intenzioni, per verifiche di tolleranza.
Se la passione nei ragazzi scoppia improvvisa, fatalmente assoluta, il sentimento dei più maturi (maturi?) sconta la vita che c’è stata. Non ammette rischio di pentimenti. Così la prudenza è il sintomo di una stagione che, avanzando troppo, ha bruciato l’incoscienza radiosa di lanciarsi come fanno gli uccelli: nel vuoto, fiduciosi delle proprie ali e senza rete. Ma l’istinto è un seme solo appena un poco rinsecchito. Quando affonda, anche casualmente nella terra bagnata, allora spacca il nocciolo, sale verso il sole, fiorisce in rosso.
Mi sorprendeva la sua intelligenza: i commenti puntuti agli articoli dei quotidiani che sfogliavamo, durante i nostri appuntamenti al bar, rivelavano la prontezza di chi è abituata a mostrare che ha pistole, e pronte a sparare per proteggere un suo modello, inossidabile, di onestà. Alberta pretendeva di coinvolgermi: ammetto che faticavo ad uscire dal mio guscio riservato di qualunquismo. In lei si accendeva perennemente una vitalità negli occhi, per nulla adombrata dalle piccole rughe intorno. Alla forte personalità che quasi mi metteva soggezione, faceva da contrappeso a rassicurarmi una curiosa docilità nel rapportarsi con me: quasi che il mondo esterno le apparisse sospetto, e che io rappresentassi per lei una specie di porto quieto dove ripararsi dalle burrasche. Ora nella mia mente si affacciò una scena: un tardo pomeriggio passeggiavamo, per una piacevole abitudine che avevamo conquistato, tra i vicoli sorprendenti intorno alla Pescheria. L’umidità faceva risaltare il selciato, nel riverbero dei lampioni, di una luminosità opaca, arcana. Gruppi di maschere sfilavano mescolandosi ai passanti in abito civile. Su quell’inusuale palcoscenico non era affatto scontato stabilire chi recitasse una parte e chi no. Verso di noi avanzava una comitiva: quattro ragazzi travestiti come i neri di Harlem, con i visi sporcati approssimativamente di nerofumo, schiamazzavano fingendo un inverosimile slang americano. Uno di loro aveva imboccato una tromba e si era messo a straziare le note. All’improvviso mi aveva puntato addosso lo strumento, assordandomi. Perduta la mia imperturbabilità, avevo fatto uno scarto istintivo indietro. Mi ero sentito proprio buffo. Anche lei aveva riso e questo mi infastidiva oltremodo. Avevo lanciato addosso al suonatore una serie di insulti, me ne ricordo bene: «Bastardo, incivile!». Gli avevo gridato questo e anche dell’altro. Mi ero reso conto di essere andato troppo fuori misura: in fondo era un ragazzo. Date le circostanze, dopo avevo esibito un buonumore un poco esagerato. Ma Alberta, per il resto della serata, aveva risposto alle mie provocazioni, anche ai miei gesti di affetto, quasi soltanto a monosillabi.
Non sono ero più riuscito a incontrarla, Alberta, dopo quella sera. Rivedevo con un senso di vergogna i tentativi falliti: avevo provato molte volte ad invitarla. Anche con lusinghe puerili che, dopo inutili contrattazioni per ottenere la sua compagnia, mi ferivano nell’orgoglio: ma lei no. Per me non aveva più tempo. Non era nemmeno disponibile a un chiarimento, tanto le sembrava ovvio il suo atteggiamento assurdo. Provavo una sensazione di smarrimento, di vuoto: non poteva essersi accorta, soltanto ora, che non funzionavamo come coppia, o per lo meno come amici, dopo tanti mesi di complicità. Avevo provato a ripetere mentalmente la sequenza: cos’era successo? Non avevamo litigato. Né quella sera né prima: mai! Così avevo lasciato perdere definitivamente.
Rividi una giornata impossibile di una primavera inoltrata che pareva estate. Mi ero deciso ad aprire una rivista, rintanato sul divano. Avevo smesso subito: troppa afa. Allora avevo preso a manipolare lo smartphone, cercando il suo nome. Ero di nuovo sul punto di richiamarla. Ma avevo preferito rifugiarmi nella banalità dei ricordi, forse per vigliaccheria: puntai direttamente alla sezione dei messaggi. Li scorsi come si farebbe per uno scarno album. Apparivano date, piccole frasi, i richiami che ci eravamo scambiati, le allusioni affettuose: avevano riempito la mia vita anche nei momenti della sua assenza. Improvvisamente avvertii una stilettata: tra tanti messaggi insignificanti, dall’elenco ora emergeva un sms di risposta ad un mio ennesimo tentativo di avvicinarla. L’sms appariva registrato in una tinta celeste, chiara, come se l’avessi già letto, maledizione: imprudentemente dovevo averlo modificato io, chissà come e quando, con le mie dita di salsiccia, e si era confuso tra gli altri archiviati. Che stupido! Risaliva all’inverno passato. Diceva:
Credo nel peso
che hanno le parole.
E in quelle che sfuggono
colgo una sincerità, intima.
Niente capita per caso.
Mi spiace, siamo così distanti…
Con me sei stato caro,
ma non basta. Non basta. Non basta.
28/2/2014 23.59
Ero rimasto di stucco. Provai un’intensa delusione, ma almeno avevo una chiave per tentare di capire, anche se non sapevo dove girarla: con lei ero stato sempre pieno di attenzioni e delicato. Arrovellandomi senza soluzione, mi rifiutavo di accettare un’ipotesi ricorrente, per come mi pareva assurda. Infine, in un attimo, tutto mi risultò così netto: rivissi un altro quadro. C’era stato l’episodio insignificante con le maschere. Non c’entrava proprio nulla con noi, eppure… Riudivo precisamente, come se risuonassero, alcune frasi infelici che avevo detto. Dopo aver mandato al diavolo quel falso negro di Harlem, avevo aggiunto rivolgendomi a lei, quasi per giustificarmi:
«Che fastidio! Così, nelle orecchie…mi ha fatto prendere uno spavento quel cretino. Abbiamo bisogno anche delle maschere dei negri, adesso! Non bastano quei morti di fame veri che ci sorbiamo qui, stabili, a scassarci…Ma ti pare?» Erano frasi forti, d’istinto, soltanto di rabbia. Lei, così intransigente, deve averle accolte malissimo…Sapevo che ora era tardi per rimediare, era passato troppo tempo da quel suo messaggio sms che forse nascondeva, nel lapidario congedo, una speranza sottintesa: la sua risposta era comunque un segno di contatto che fino ad allora era stato negato, e magari Alberta ci aveva ripensato e confidava che non avrei lasciato perdere la sua disperata ammissione, che avrei forzato ancora la mano e l’avrei cercata. Ancora.
Andai al frigo. Aprendo la portina notai che la lucetta era così sbiadita. Pareva quella delle tombe al cimitero. Presi una bottiglia di birra. La stappai, tracannai con rabbia dal collo. Il liquido era gelido: lo buttai giù alla faccia di Alberta e di tutti. Ripetei, scrollando le spalle, mortificato: «… una sincerità, intima, nelle parole che sfuggono». Stupida pretesa. Pensai, ma senza convinzione, che avrei fatto un bel guaio a mettermi seriamente con quella fanatica. Non dovevo più, non volevo più dar conto a nessuno, alla mia età. Quasi subito mi resi conto, dannatamente, che ero imploso. In un crollo definitivo e prima impercettibile, senza colpi di scena clamorosi, così come si era avvitata senza una ragione consistente la mia storia con lei. Stavo vivendo un incubo? Perché tutto avveniva in un silenzio così esasperante e senza riferimenti? La birra era tanto gelata da farmi rabbrividire la bocca, da farmi male alle gengive. Forse dovevo avere qualche taglio, o qualche piccola ulcera, perché mi doleva dappertutto: sì, la bocca e la testa. Ah, la testa! A fatica portai una mano sulle labbra. Notai che sanguinavano. Mi sentivo fracassato. Stranamente stavo disteso come un sacco sul pavimento. Ne percepivo la levigata durezza. Tentati di tirarmi su: intorno a me notai il brillio di qualche scheggia di vetro, cocci di bicchiere. Ero intontito.
Sentii che accorreva qualcuno verso di me. Passi concitati. E la voce di Alberta mi chiamava, amore, allarmata. La intravidi come in dormiveglia. Lei si chinava e tentava di sollevarmi, impressionata, quasi materna. Alberta affettuosa, preoccupata. E io ero così perduto, senza orientamento. Ma dove mi trovavo? Perché? Con chi? Non meritavo almeno di udire, di cogliere un segno, inequivocabile, nel mio immenso dispiacere?