Gianmarino Battaglia
«È arrivata! È arrivata la lettera del grillo!»
«La lettera del grillo! La lettera del grillo!»
«Apritela, cosa aspettate, apritela!»
«Presto!»
Esimi colleghi, stimati amici,
vi saluto con affetto.
La vostra missiva mi ha raggiunto in queste isole tropicali dove approdai, tre anni or sono, in cerca di tranquillità.
Voi riaprite una questione che detti per chiusa il giorno stesso in cui partii.
Non posso nascondervi quanto il rievocare quella vicenda, che tanto mise a dura prova la mia integrità professionale, la mia dignità sociale, il mio orgoglio, turbi, ancor oggi, il mio animo.
Poiché me lo chiedete, amici, e in buona fede, non mi asterrò dall’accontentarvi e, attenendomi ai fatti, narrerò ogni cosa.
Vi prego di accontentarvi di queste ultime mie parole.
La precedente missione, come ricorderete, si era rivelata piuttosto impegnativa (avevo dovuto darmi non poco da fare con quella testa di legno), pertanto la società aveva deciso di affidarmi un caso semplice. A detta loro non ci sarebbe stato nemmeno il bisogno di palesarsi, ma “lasciar fare al destino il suo corso”.
Francamente era proprio quello che mi serviva.
Il giorno seguente mi recai all’indirizzo stampato sul plico approfittando, lungo la strada, per leggere la scheda di presentazione.
La via era piena zeppa di ragazzi chiassosi e saltando tra di loro lo riconobbi facilmente. Mi bastò un’occhiata per trovarmi d’accordo con quei pochi dati che l’ufficio centrale aveva raccolto negli anni, a partire dalla nascita.
Il soggetto si chiamava GianMarino Battaglia ed era, senza dubbio, un ragazzo buono.
Non era magro e neppure grasso, non era alto e nemmeno basso. Insomma, era nella media.
I capelli erano a spazzola, come la maggioranza dei suoi coetanei. Aveva, congenito, un leggero strabismo e per questo indossava un paio di occhiali dorati con lenti rotonde che sua madre, Marinella Ragusini Battaglia, aveva scelto per lui. Portava, stampato sotto al naso, un sorriso tenue, leggermente obliquo, che gli gonfiava appena la guancia destra.
Nell’insieme aveva un aspetto banale, forse appena appena asimmetrico, ma certamente innocuo.
Per due anni mi limitai a controllare da lontano e mai fu necessario intervenire. Quel ragazzo si teneva distante da ogni cosa illecita: per indole, per timidezza e, quando non bastava, perché era la madre a dirgli cosa e come fare, su tutto.
Quando GianMarino ebbe dodici anni, Marinella si risposò e mandò il figlio in collegio, convincendosi che quello fosse il luogo migliore dove far crescere un adolescente. E non aveva torto: c’erano disciplina, regole, orari che GianMarino rispettò fin da subito, docile e ubbidiente come a casa propria. A volte capitava che, nel gruppo, anche lui si unisse a qualche piccola marachella, ma sempre veniva scoperto e redarguito, solo lui, sempre lui, pertanto, mentre i miei colleghi presenti dovevano darsi un bel po’ da fare con i loro affidati, anche in questi casi mi limitavo ad osservare come lui piegasse la testa e l’animo alle parole dei religiosi, indugiando in un atteggiamento visibilmente contrito, e come gli ci volessero poi delle ore per ricominciare a rialzare lo sguardo. Non era capace di mentire, non era capace di simulare e il malessere che lo colpiva in seguito a questi fatterelli di poco peso era talmente profondo da non lasciare adito ad equivoci. GianMarino Battaglia, figlio di Marinella Ragusini Battaglia, era un ragazzo buono.
Ma dovetti presto ammettere di non aver capito nulla. E d’altra parte, come poter pensare altrimenti?
L’anno stava per finire e i ragazzi erano stanchi delle lezioni, del caldo, della disciplina e così, tra le tante, un giorno pensarono di svagarsi giocando a palla con le mele che il custode aveva lasciato in portineria per ingraziarsi quei sant’uomini del collegio. Anche GianMarino non si era sottratto a quel gioco e aveva rubato la sua mela. Decisi di non intervenire per questa sciocchezzuola. Avrei dovuto procedere alle presentazioni, spiegare, redigere un verbale, e per fatterelli di questo calibro, come da protocollo, non si interviene se non in caso di reiterazione del misfatto. La sera stessa tutti avevano fatto sparire le mele, naturalmente immangiabili, tanto erano scorticate ed emaciate, chi sotterrandole, chi lanciandole tra l’erba alta. Tutti, tranne GianMarino.
Il rettore, il giorno successivo, passando per le camerate vide la mela che marciva sul comò e pensò bene di ammonire pubblicamente l’autore di quello scempio: che servisse di lezione per tutti.
Convocò nel chiostro GianMarino e tutti i suoi compagni. Il ragazzo se ne stava al centro, a capo chino e con le braccia allungate verso il basso. Il rettore, accalorato nella lunga veste nera, scodellava il suo predicozzo, ed era tutto un gran rimbombare tra i portici: e il rispetto, e i bambini affamati, e i poveri, e le regole, e la disciplina! E tutto accadde in pochi attimi.
Avevo voltato lo sguardo, distratto da un improvviso baluginio sul volto di marmo bianco, immacolato, della statua della Santa Vergine. Un tonfo sordo, seguito da un solo istante di silenzio assoluto, mi fece voltare. Il rettore gemeva, dimenandosi sul pavimento, la faccia rossa e gli occhi spalancati e roteanti e le mani strette a coppa tra le gambe. Si contorceva senza fiato battendo i tacchi a terra. Sopra di lui GianMarino, con le mani fra i capelli, col piede ancora per aria, paonazzo, ghignava e urlava e imprecava e ghignava di nuovo. I suoi occhiali erano a terra, in frantumi; i suoi occhi erano diritti e affilati e trafiggevano, uno ad uno, gli sguardi della ragazzaglia, attonita attorno a lui. L’eco raddoppiava, triplicava, centuplicava la blasfemia delle sue parole e queste cadevano come scudisciate sul corpo dolente del sant’uomo ormai immobile, il volto teso verso la Santa Vergine. Non c’era modo di fermare quella furia.
GianMarino, manco a dirlo, fu cacciato dal collegio per decisione irrevocabile del vicerettore, con la precisa ingiunzione a non presentarsi mai più a quell’indirizzo.
Marinella, con l’aiuto di due corpulenti sacerdoti, del custode e di due suore che seguivano il corteo pregando, il rosario in mano, caricò di peso il figlio nell’automobile, che gridava e scalciava come un demonio, e partì da lì per non farvi mai più ritorno.
Salii anch’io sull’auto, ancora inebetito. La madre passava nervosamente gli occhi dalla strada al retrovisore, terrorizzata e sconcertata dalla metamorfosi del figlio.
Una volta a casa lo chiuse in camera e pianse per tutto il giorno. Il giorno seguente smise e per lui non pianse mai più. Aspettava un figlio dal nuovo marito e avrebbe potuto plasmare la nuova creatura a sua immagine, senza perdere ancora tempo con GianMarino, figlio certamente più di quel beone del padre che suo.
Non aveva più senso che io restassi appresso a quel ragazzo: non avrebbe mai dato ascolto alla sua coscienza. Si era allineato al suo destino ed era un destino che lo portava dritto alla perdizione, inarrestabile come un treno lanciato a folle velocità, ma era proprio quello per cui sentiva di essere nato e ciò lo rendeva felice, appagato.
Mi fermai qualche giorno ancora per scrupolo e per passare al vaglio il mio operato. GianMarino nel frattempo aveva preso gusto a misurar la faccia alla gente coi pugni. A casa non tornava se non alla sera tardi. Non c’era strada, vicolo o buco dove non ficcasse il naso per cavar qualche dente o raddrizzare la schiena a qualcuno. Non andava più a scuola e aveva iniziato a fumare e a bere.
Infine stesi il mio rapporto e il giorno stesso lo consegnai all’ufficio e rassegnai le mie dimissioni. Deposi la stella, presi la mia borsa, il cilindro, l’ombrello, e saltai dalla finestra per andare ad imbarcarmi sulla prima nave.
Vostro,
Grillo Parlante.
(racconto di Paolo Cellere)