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Equilibri

Appunto sul diario:

Ci sono tracce che si devono seguire, bisogni che si devono soddisfare.
Ci sono intuizioni che indicano la verità senza spiegarla.
Ci sono attimi in cui il tempo è quello giusto.
Ci sono momenti della vita in cui si deve accettare tutto.

Il tragitto è Piazzale Roma-Campo San Giovanni e Paolo.
Ho tanto tempo ormai: anche se questo è solo un concetto, e non mi appartiene più.
Sento di subirlo.
Non riesco più a raccontarlo.
Vivo in un conto alla rovescia.

Arrivo presto: sempre prima, come attratto da un disordine armonioso.
In testa il percorso.
Dopo i tre ponti, ristorante gelateria negozio di vetro pizza al taglio e kebab ristorante tabaccheria.
“Benvenuti a Venezia, signore e signori!”, mi dico tra me e me, imitando il tono grottesco di un imbonitore.
Svario, dissimulo, fingo di avere ancora una vita che ha senso, mentre scorre il tempo che mi porterà da te, che sei prossima alla non vita, al non tempo, al non senso.
“Se si dice cibo, io dico dita ficcate in gola; se si dice profumo, io dico odore acido di vomito; se si dice colore e forma, io dico prorompere di sforzi, getto a fontana, forma senza forma”.

Arrivo in prossimità del ponte di ferro oltre il quale un tempo c’era la migliore libreria della città, che ha chiuso, e che tutti, veneziani e studenti della mia generazione hanno amato; ma anche l’amore finisce lasciando spazio all’assenza, alla mancanza, o a un’altra pizza al taglio e kebab.
My love is a “take away!!”.

Da qui giro verso destra, sulla fondamenta, vicino al ponte del carcere maschile, in cui, quando ero bambino, ho avuta la mia prima esperienza di vita-morte-vita.
Stavo giocando da solo mentre mia madre era dal parrucchiere.
Non ricordo bene i dettagli ma devo essere uscito dalla bottega senza che nessuno mi vedesse, esserino minuto che approfitta degli sguardi nascosti dagli asciugacapelli a forma di caschi marziani e delle chiacchiere finalmente leggere in quegli anni di parole pesanti.
Poi un vuoto di memoria che annulla causa e ricordo della caduta in acqua.
Rammento solo il prima e il dopo: manca il durante.
Un attimo prima l’aria mi accarezzava.
Poi l’acqua mi circondava.
Suono sordo, bolle che escono da bocca e naso, saliscendi morbido.
Vado su e giù.
Vicini a me pesci, schie, paine, fondi di barca.
Non sono preoccupato.
Sento solo il suono dell’acqua che si muove appena, indifferente al nuovo piccolo ospite, e mi lascio andare.
Fluttuo inerte in uno stato di pace incosciente.
Liquido amniotico verde salato scuro ottundente.
Poi l’irrompere verticale dall’alto verso il basso di un fragore sordo.
Arriva, come sparata da un fucile, una mano seguita dal suo braccio che si dirige verso me, mi prende, mi assicura a sé con forza, e mi solleva, stantuffo immaginifico.
Mi riporta piedi a terra sulla fondamenta.
Mia madre esce dal negozio urlando.
È pura emozione: gioia e angoscia coi bigodini.
È al contempo felicità e disperazione.
Mi stringe forte fino a soffocarmi d’amore.
Senza saperlo, mi odia per quanto mi ama.

Per un momento non penso a te.
Momento salvifico, benché inutile.
La mia consapevolezza è maggiore rispetto a mia madre. Ma coi sentimenti forti, ancestrali, così profondi da governare il nostro personale buio, la consapevolezza è solo il punto di partenza.
Mi fermo in un’ostaria  per mangiare un cicheto.
Ce n’è di ogni genere, un po’ di tutto. Sono gli avanzi del mattino, del pranzo, dove l’università, sua maestà, spedisce i suoi sudditi affamati.
C’è vovo duro, pesse frito, folpeti, sepoine, verdura ai feri. Non dico cosa bevo, fa lui, il barista: spris cò l’aperol co l’oiva.

In questo campo ricordi d’infanzia.
Festa del quartiere, quarant’anni fa.
Sul pozzo, altare pagano improvvisato, un catino da lavandaia colmo d’acqua salata di canale veneziano con dentro strane creature che girano nervose. Almeno così sembra da quello che si intravede dalla trasparenza della plastica.
Un uomo, semi-Dio la sovrasta, l’osserva e studia.
Poi giù, dentro, fulmineo.
Infila la testa, solo quella, e s’agita.
Tutto è immobile.
La gente trattiene il fiato.
Il silenzio è  padrone.
Il corpo privo del capo si muove e contorce plastico, seppur con un piglio di disperazione che lo rende appena scattoso e disarmonico.
Poi esce la testa del super eroe.
Salendo, tornando alla postura eretta, mostra con orgoglio il trofeo che tiene tra i denti: è un bisato, che lui doveva catturare senza l’ausilio delle mani.
La sua squadra, l’unica finora cui sia riuscita l’impresa, esulta. Pronta a salire sul palo della cuccagna, ultima prova della sfida.
Lassù, in tempi in cui il ricordo della fame della guerra è ancora adolescente, il prosciutto intero e la cesta piena di ogni bene masticabile, è una meta ambita.
Venezia ha sempre fame e sete.
Si festeggerà alla fine, con un rito di follia collettiva: la squadra che vince si tuffa per prima in canale. Poi seguiranno gli altri.
Si poteva fare, allora.
Non si sapeva di immergersi nel putridume.
I miei occhi di bambino vedevano un mondo pulito.

Esco dal bar e via verso Santa Margherita.
Bar pizza e kebab-bar pizza e kebab.
Tu sei riuscita a odiare Venezia.
Era il regno dei tuoi incubi, amica dei tuoi nemici, alleata del tuo disgusto.
Qui tutti parlano di cibo.
Qui si mangia, si beve e ce lo si racconta: non si parla quasi d’altro.
Qui, tu, solo un silenzio senza fiato.
Qui tu, agito di pulsioni.
Passeggio, avanzo, guardo i giovani, li vedo vivere.
Mentre vedo tutti questi ragazzi ridere, penso all’ultima volta che l’hai fatto tu.
È un ricordo lontano, dimenticato, affogato nel pianto.

Un’immagine.
In bagno, in vasca, tua madre ti accarezza la schiena ossuta con la spugna morbida.
Il bagnoschiuma lascia una scia sulle scapole.
Il sentiero della spina dorsale forma tante piccole montagne tanto è evidente.
La porta era socchiusa e ho guardato dentro.
Ho trattenuto il fiato.
Silenzio e confusione.
Stupore e dolore che prende a pugni lo sterno per penetrarmi.
E immaginare la parte davanti, il petto, le costole di vetro e il cuore che ad ogni battito sembra potersi vedere e rompere quelle ossa fragili come crosta di pane e lacerare quella pelle sottile come carta velina.

Da quando vengo ogni sera a trovarti, ho anticipato l’orario della cena.
A seconda di come mi sento, scelgo il locale.
Spesso consumo tramezzini.
A Venezia sono sublimi, unici.
Ce ne sono a decine.
Sono grossi, invitanti, colorati, profumati, morbidi.
Col tonno gamberi uova prosciutto granchio pomodoro lattuga formaggi funghi asparagi mozzarella mischiati tra loro con la maionese.
E il cibo, diventato tuo nemico, è diventato per reazione mio alleato.
La speranza intima, mi si dice, è di nutrire anche te, così.
La golosità si è impadronita di me con prepotenza.
Il sapore del cibo transita in bocca, accarezza lingua e palato, scende giù e compie il suo percorso.
La sua consistenza, la sua meraviglia, la sua naturale genialità incantano i miei sensi.
Siamo in equilibrio.
Rassicuro la mia felicità, che compensa la tua infelicità.
La mia gioia era stare con te; la tua, di poter avere il totale controllo della tua autodistruzione.
“Non puoi capire”, dicevi.
È vero, pensavo, posso solo viverti vicino, rinunciando alla comprensione.

Passo i Frari  verso Rialto, per Campo San Polo.
A Rialto mi abbandono di nuovo alle ostarie: stavolta, bigoi in salsa e fegato aea venexiana, ma niente ombre, solo acqua, che se no non reggo e m’addormento. E non me lo posso permettere, con tutto quello che ti devo raccontare.

Le cene erano il momento della pena, della pietà, del dolore senza gioco.
Quando ti sedevi, la fame, come la comunicazione, veniva paralizzata, ipnotizzata dalla pesantezza della tua assente presenza.
Più dimagrivi, più scavavi per arrivare all’inconsistenza, che tu definivi essenza, meno si riusciva a respirare.
Il rumore del silenzio, superava quello della musica di sottofondo.
Tutto diventava inutile, ridicolo, con te.
Divoravi il cibo con furiosa ingordigia.
Poi ti alzavi, andavi verso il bagno, non tornavi più.
Noi, ogni giorno più lontani dal credere la guarigione possibile.

La mattina in questa zona ci sono quelli che chiamavi i “porci vestiti di lardo”.
Ricordo la rabbia con cui descrivevi quegli “uomini bambini, che con il pretesto di socializzare buttano dentro ogni genere di orrore e veleno. Con quegli stomaci espansi, fuori di ogni logica estetica ed etica, con la pance che debordano dai pantaloni, la pelle tesa come la plastica dei palloncini, al cui interno ci deve essere uno stagno di creature informi e mostruose come caricature, che banchettano in quella fiera di succo gastrico”.
Ce l’avevi con i veneziani da ostaria, la cui tradizione è perpetrata dai “principini del nero come gondolieri, motoscafisti e commercianti che hanno ridotto Venezia a succursale di una triste furbizia”.
Ce l’avevi con loro, con la città, con la società, coi genitori, col mondo intero.
Saresti stata perfettamente adeguata agli standard di adolescente, tutta viscere e rivoluzione.

Ma dentro c’era qualcos’altro.
Dentro nasceva, maturava, cresceva, s’incistava una nuova padrona, che comanda i muscoli involontari e che detta legge.
Una legge fondata sull’estetica della sottrazione, sulla geometria dell’angolo retto.
Una legge che ingurgita e respinge subitanea, con precisione, con una scientificità tale da rendere i movimenti di azione-reazione un unicum, un solo istante temporale.

A quest’ora, in equilibrio tra la fine del giorno e l’inizio della sera, Venezia s’appresta a chiudere i negozi, a ritirarsi nelle case e a incoraggiare il viaggio di ritorno dei pendolari. Anche oggi ha venduto, ha prodotto, ha ospitato migliaia di consumatori, che concluderanno la serata in ristoranti e alberghi.
È l’ora più bella, in cui il tramonto esibisce senza pudore i suoi colori; l’aria è cristallina, trasparente, netta; verrebbe voglia di ordinare al mondo di fermarsi, di guardare, di vedere, di ascoltare; di ricordargli che è poco più che un niente nell’immensità.
Sono quasi arrivato da te.
Giro verso Campo Santa Marina, a tre ponti appena da Campo San Giovanni e Paolo.
Mi fermerò, al solito, nella mia pasticceria preferita.
Comprerò le solite tre paste: na crema, na greca, na pastafroea coea marmeata;
due per me, una per te, per il tuo risveglio.

Il tragitto, lo sai, è lo stesso di quel giorno.
Quel giorno di quella telefonata.
Quel giorno di quella telefonata che ha stracciato ogni concetto pregresso di spazio e tempo, di vita e morte, di amore e di assenza di questo.
Stavo tornando dall’ufficio.
Squilla il cellulare.
Rispondo.
Tua madre parla.
Dice che sei ricoverata.
Parla di coma.
Mi fermo.
Il braccio s’abbassa.
La mano s’apre.
Il telefono cade.
Rumore di plastica.
Sono fermo.
Immobile.
Paralizzato.
Ghiaccio.
Buio.
Tutto.
Niente.

M’abbasso per recuperare il telefono che prendo e metto in tasca e inizio subito a camminare veloce sempre più veloce fino a correre mentre tutto intorno diventa sfocato nella sua pregnante insignificanza rispetto al movimento che dentro rimbalza furioso nella testa e nel cuore che batte come tamburo tribale e che anima le gambe e le fa muovere come in preda a un’ossessione animata da disperazione e nulla e ribaltamento di ogni logica terrena e sepolta e ascendente perché un dolore fitto e corposo come s’immagina sia un corpo estraneo che penetra la carne e frantuma le ossa e produce poltiglia e quel che rimane è un vuoto pneumatico che trasforma i propri colori in un nero assoluto e che irrompe senza logica provocando frane e trambusto e tempesta e la corsa che incalza sempre più potente e che fa sbattere contro gli altri e l’aria e l’incomprensione rivoltami contro come se fossi ancora qualcuno piuttosto che la trasparenza e inconsistenza e disperazione che sono con questo insieme di atomi che corre e attraversa i ponti e salta i gradini e che sa senza bisogno di pensare dove andare e come fare a raggiungere quella meta che è fine e inizio e troppo e poco  e con e senza e tutto e nulla e che finalmente vede la verità pur senza volontà di osservazione perché è nell’istante che tutto è chiarezza e intuizione che spazza via ogni concetto e concezione e credenza e dubbio e sofferenza e felicità e sorpresa e stanchezza e stupore e abitudine e ingordigia e generosità e identificazione e chiarimento e bisogno di essere finalmente e autenticamente liberato dal bisogno di essere qualcuno o qualcosa o un’identità o una funzione o una dipendenza o un giudizio o un sacrilegio o una santità o una virtù o una mortificazione e che sente crescere mentre tutto attorno scompare e appare in una nuova versione vivida e sincera e pregna di abbagliante semplicità che siamo solo una contraddizione e un ossimorico tentativo di fare ordine e logica per contrastare il caos e la casualità che in realtà è causalità e mistero e il micro che costituisce il macro che scatena reazioni che danno forza a nuove azioni che mischiandosi daranno forma ad altra sostanza la cui natura si nasconde in quell’intreccio così palese e disarmante nella sua complessa semplicità e che mi fa arrivare al reparto rianimazione in un tempo che ha cancellato il tempo.

La notte qui sarà al solito lunga e brevissima.
Sentirò poche voci.
Forse solo la mia.
Che ti aggiorna sul menù del giorno.
E sentirò il bip elettronico e il ronzio dei macchinari che certificano la vita.
Come ti ho già raccontato, nonostante il parere di tutti, continuo a chiederti di affidarti a me.
Mi dicono che non puoi sentire.
Ma non m’interessa capiscano.
Tra una parola e l’altra, tra una descrizione di quello che ho mangiato e bevuto, io so che ti nutri.
Nessuno ha ancora capito il nostro equilibrio, il nostro segreto che ci vedrà sorridere di una nostra esclusiva felicità.
Loro non possono sapere che da quando hai iniziata la malattia ho seguito con attenzione ogni piccola variazione di peso.
Per fare in modo che quello che perdevi non scomparisse, io l’ho parimenti accumulato.
Per fare in modo che l’energia che espellevi vomitando non scomparisse, l’assumevo io mangiando e aumentando il mio peso nella misura in cui tu perdevi il tuo.
Preciso preciso.
Sono cresciuto esattamente, matematicamente, in maniera speculare rispetto alla tua diminuzione.
E siamo ancora in perfetto equilibrio.
La somma del nostro peso è esattamente quella di prima.
La somma del nostro amore è esattamente quella di prima.
E io aspetterò, qui, come ogni notte.
Aspetterò che tu apra gli occhi.
Aspetterò che tu chieda, per favore, con la tua voce che non sopporto più di non sentire, di farti mangiare la pasta che è qui sul comodino.

Appunto sul diario:

un’altra notte è passata.
Non è successo niente.
E ogni notte, mi sento sempre più incerto e arreso.
Comunque, aspetterò.
Ci sono tracce che si devono seguire, bisogni che si devono soddisfare.
Ci sono intuizioni che indicano la verità senza spiegarla.
Ci sono istanti in cui il tempo è quello giusto.
Ci sono momenti della vita in cui si deve accettare tutto.

(di Cristiano Prakash Dorigo)

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