Emilio in patronato

Mi piace la dimensione teatrale – piace a tutti noi: a Franco, Marco, Umberto -, perché mi consente di comunicare attraverso il silenzio. C’è un’interazione palpabile, una reciprocità onesta, una relazione sincera tra chi parla e chi ascolta: e non c’è possibilità di finzione, dissimulazione, imbroglio: se funziona o meno, lo si sente nell’aria, nello sguardo, nella postura.
Quest’anno eravamo preparati ma avevamo fatto poche prove: quando un gruppo è solido, si conosce, ce la fa comunque.
Eravamo stanchi, condizione usuale della vita moderna, ma come sempre, eccitati.
Dopo tante lettura pubbliche, quella roba – quel formicolìo, quell’agitazione, quello stare sopra le righe, quel benessere – continua a circolarti dentro.

Poco prima di cominciare ci eravamo messi a ridere come scemi, per una scenetta dietro le quinte: avevamo deciso che la lettura sarebbe stata introdotta da un palcoscenico vuoto: noi saremmo entrati un poco dopo.
Uno di noi, temendo di essere visto dal pubblico, si era letteralmente incollato a una quinta: senza respirare quasi, era rigido come una statua.
Nel silenzio che intercorre tra lo spegnimento delle luci in sala e l’apertura del sipario, noi stavamo dietro a tapparci la bocca con le mani, per timore che si sentisse da fuori.

Poi abbiamo iniziato, e tutto è andato per il meglio.
C’è stato un finale a sorpresa, con una giovane cantante che non era prevista, ma che si è presentata a teatro e, con il chitarrista, ha chiuso il reading in modo desueto.
Le poche persone presenti hanno ascoltato, seguito il filo del racconto, applaudito.
Alla fine, soliti saluti, scambio di opinioni, smontaggio della strumentazione – mica abbiamo un service, noi -.

Stavamo per uscire quando mi sono accorto di aver dimenticato la sciarpa.
Sono tornato indietro, la sala quasi al buio, ho raggiunto il retro del palco.
C’è stato un momento strano – “strano” non è una bella parola: vuol dire tutto e niente, eppure non saprei cos’altro scrivere -, in cui ho avuto una sorta di momento metapsichico.
Stavo prendendo la sciarpa, quando ho sentito – o almeno così mi è parso – una voce che diceva “grazie”.
Non era una voce che si potesse udire: era dentro me.
L’ho attribuita a Emilio, e tutto – stanchezza, adrenalina, dubbi,  gioie, sentimenti, emozioni, raziocinio – è confluito in un nucleo microscopico che mi porto dentro da sempre, il quale mi fa dire, fare, baciare, scrivere, leggere, quello che dico, faccio, bacio, scrivo, leggo.
Ho indossato la sciarpa, ho detto “ciao Emilio”, e ho raggiunto gli altri.

La notte, tarda, dopo aver letto fin che il sonno arrivava, ho fatto sogni d’amore.

(cris)

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