Dogo Villalta
Un bel nome, sì: per chi lo vedeva da fuori o veniva da lontano. Nel paese, non si chiedevano tante cose: come perché cosa, a volte quando. Si era sempre chiamato così, e basta.
Poteva avere tutti i difetti che uno vuole, ma su di una cosa erano tutti d’accordo, come se sapessero veramente solo quella. La gentilezza.
Diceva buongiorno a tutti, passando o incrociando con la sua bicicletta. Qualcuno era così sorpreso che non faceva in tempo a rispondere. La volta dopo sarebbe stato più attento, ma ci cascava egualmente: Dogo Villalta era così rapido che ti metteva sempre sotto scacco, quando non te l’aspettavi era già passato oltre. E non sembrava. Dovevi imparare ad anticiparlo.
Il dubbio poi cominciò a girare. Era importante, e significativo, era garanzia di autenticità, vera bonomia, dire buongiorno a tutti? O non era piuttosto un vezzo: distinguersi; gli era forse necessario; o alla fine era un far pesare su dei normali paesani la sua superiorità. Il dubbio girava poco, ma girava. Per la maggior parte della gente il problema non c’era proprio: come arrivare anche solo a pensarlo. Chi ci faceva veramente caso, adesso. E dov’era il tempo.
Al limite, potevi non rispondere. C’era altro a cui stare attenti: problemi veri; quelli che non hanno soluzione.
Da dove venisse, lo si diceva. Il perché di questo arrivo improvviso, era già più difficile da pensare, o non si voleva dire.
Cristina di nome, si presentava e la dicevano Titina, facendo complicati riferimenti come se venisse da Esterina, ma per il paese era difficile, un nome così; e allora non pareva simpatica a nessuno. Capelli appena rossi, più biondi che rossi; lentiggini sì, sparse. Entrò a scuola a metà anno, perché altrove era arrivata la guerra; i primi giorni tutti la guardavano, lei che non guardava nessuno.
Era la nipote del Dogo; altri dicevano la figlia, nata con una che lui poi non aveva sposata o che lo aveva lasciato o era andata via o l’avevano presa. Tutti però dicevano che non c’era da pensare a una donnaccia, questo per la verità.
Una nipote era facile da pensare; in tempo di guerra bisognava spostarsi. Ciò che lasciava perplessi è che nessuno sapeva qualcosa di preciso: una notizia in più avrebbe sistemato tante domande, a vantaggio anche della bambina, che non aveva più di nove anni.
Dogo Villalta era troppo anziano per avere una figlia così piccola; non era il nonno però, non avendo mai avuto figli dell’età giusta. Un suo fratello più giovane forse: perché la bambina era a scuola come una Villalta.
Che il Dogo avesse una sorella lo si era detto più volte nel tempo, ben prima della guerra. Era forse Titina la figlia di un errore, messo in silenzio nella famiglia Villalta. Il nome della madre doveva essere nelle carte della scuola ma la maestra, a domanda, aveva sempre risposto che non erano ancora arrivate; con quei tempi si poteva capire.
Alla fine: “la nipote del Dogo”; bastò. Anche perché era stato lontano dal paese e dalla sua tenuta per tanti anni che poteva essere successo di tutto, e adesso non c’era tempo neanche per chiedere.
Zimbaldi manteneva in piedi la curiosità dicendo «he he» tutte le volte che venivano fuori i nomi: «Villalta, he he… Dogo he he… Ester he he.» Una smorfia o un mezzo sorriso, certamente un’ambiguità di cui nessuno osava chiedergli ragione perché lui era troppo potente per quel piccolo paese, anche se il Partito era lontano; era sempre sembrato molto lontano. Ma Zimbaldi c’era.
Si seppe un po’ più tardi che una sera Zimbaldi lo fermò, Villalta, d’improvviso, mettendosi di traverso con la sua bicicletta a quell’altra.
Dell’incontro brusco e delle parole fu fatto silenzio; si cominciò a cambiare discorso tutte le volte che poteva esserci un’allusione a dei possibili chiarimenti. Zimbaldi stesso smise quel suo «he he».
Uno disse, perché non poteva proprio tenerselo dentro, che il Dogo aveva alzato la voce, lui così mingherlino in confronto a Zimbaldi, e lo aveva tramortito con alcune parole, seguite da un sussurrio. E Zimbaldi liberò la strada facendo conto di niente; cercava poi di capire se c’era qualcuno nei paraggi. Non poteva però vedere dietro le siepi, dove c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da fare.
A scuola Cristina si era ormai rinfrancata, guardava tutti e si imponeva anche troppo, perché parlava molto velocemente, con una intonazione da città, e perché sapeva molte cose più di noi. Nessuno le fece mai le domande che avrebbe voluto fare; poi ce le dimenticammo.
La linea del fronte si avvicinava e ognuno aveva trovato, da solo o con altri, un rifugio di notte per i mesi che arrivavano, o da subito per qualche bombardamento che era stato preannunciato, possibile, e poi verrebbe gridato con sirene d’allarme, che per il momento restava irreale.
Non si fecero esami quell’anno; carte a scuola per lei non ce n’erano mai state. Cristina era ospite nascosta della maestra per non restare fuori della scuola; sarebbe stata una anomalia vistosa nel paese. Tutti l’avrebbero saputo, anche lontano, negli altri paesi.
Non era neanche una vera nipote del Dogo, molto di meno, ma andava salvata perché era ebrea, e veniva da lontano. Almeno era nascosta fra altri; non era però sfuggita a Zimbaldi, ma di lui si può dire che non fece niente contro. Il Dogo aveva saputo come mordere.
Poi si seppe che proprio grazie a lui aveva passato, mesi dopo, la linea gotica all’incontrario, protetta dai ragazzi che si erano ritirati in montagna, ed era tornata a Roma.
Quando la scuola ricominciò nessuno disse più niente, perché tutti sapevano.
(di Bruno Pompili)