Dodici carte di richiamo
Ha dei profondi occhi accesi e il suo tedesco è dolce e molto basso, come se nulla di quanto gli accade intorno possa turbarlo. Mi racconta di come la guerra sia una strada di guai “perché uccide sempre qualcosa dentro le persone”.
E’ un reduce. Uno degli ultimi, pare. Si chiama Josef Hofer, è di San Pancrazio in Val d’Ultimo. Ha combattuto per l’Impero. E’ stato chiamato a fare la guerra il primo di Agosto del 1914.
Quel giorno ero a far baita e tutti badavamo più che altro alla fienagione… Mai avrei pensato che qualcuno di importante venisse a chiamare me che ero ancora un ragazzo. Era un messo della gendarmeria regia… Era vestito talmente bene che pensai ci fosse in corso una parata o qualcosa del genere. Aveva le dodici carte di richiamo destinate a me e ad altri undici. I dodici apostoli dalle dodici carte ci chiamarono un giorno…. Qualche ora dopo fu proclamata la mobilitazione generale dai ventuno ai quarantadue anni. Tutti sentimmo una grande commozione e presagimmo che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di importante, la più grande guerra dall’origine dei tempi.
Quando comincio a fare troppe domande annuisce con aria solenne e incoraggiante come a dire: “Pazienza, abbi pazienza”.
Mi racconta della battaglia di Jaslo in Galizia dove ha visto cadere, uno dopo l’altro, tutti i suoi compagni.
Lì, tra quei campi, si combattè una guerra fatta di scontri alla baionetta, di avanzate e ritirate, di marce senza fine, di grandi battaglie e molti prigionieri. Gli eserciti russo e austro-tedesco si affrontarono in una guerra che alternò fasi di grande movimento a lunghi periodi di attesa in uno scontro tra Imperi che avrebbe disintegrato l’Europa multietnica degli Asburgo, degli Hohenzollern e dei Romanov.
La maggioranza dei soldati, teme il dolore, la sofferenza prolungata, ancor più della morte. Tutti, lassù, abbiamo fatto cose di cui è meglio non parlare.
Mi parla del frastuono della guerra, Josef, dello strepitare delle mitragliatrici, di soldati prigionieri della morfina, di momenti vissuti in prima linea e di fucili che sparano meccanicamente, una pallottola dopo l’altra.
Spesso trascorrevamo la notti tenendo acceso un fuoco. Nelle soste di tappa trovavamo sempre molta legna e dove si accendeva il fuoco la neve fondeva e allora si aprivano delle grosse cavità che scoprivano il suolo.
Un bravo cacciatore sa di doversi affidare alle proprie sensazioni e noi ci sentivamo dei cacciatori in attesa delle prede. Mentre aspettavamo bisbigliavamo tra noi. Eravamo ben nascosti. Non parlavamo mai della nostra terra. Era troppo lontana.
Quando Josef parla, automaticamente abbassa la testa e stringe le labbra in un’espressione indecifrabile. Scuote la testa e apre gli occhi a fatica, come se si svegliasse. Gli costa fatica ricordare e parlare.
Tutte le sere, verso il tramonto, ci ordinavano di metterci in stato d’allerta, con i fucili spianati e la testa appena sotto il bordo delle trincee. Era una specie di rituale dell’alba e del tramonto da rispettare a tutti i costi.
Racconta, Josef, che la Galizia è una distesa leggera come foschia. Una terra maledetta devastata e butterata.
La zona del fronte era bucata da crateri di diversa misura, alcuni troppo piccoli per offrire riparo a un uomo, altri talmente grandi da sembrare piccole valli. A volte tutto tornava immerso nel silenzio, e poteva anche capitare di dimenticarsi di essere nel bel mezzo di un luogo terribile.
Quando lo guardo e vedo il dolore che prova, ricordo a me stesso che non sono in grado di comprendere la sua sofferenza. La luce si attenua e mi sento formicolare le dita delle mani e dei piedi. Il senso di quelle immagini e di quelle parole mi sta diventando ora più chiaro.
(Marco Crestani)