Diario di un Insegnante d’Italiano ai Tropici (Ten)
Petunia Jones era addetta alle interviste con le celebrities, tanto da convincersi d’essere una celebrity pure lei. Che dire di Petunia? Aveva una cascata di capelli biondi, sguardi lascivi e bocca carica come una pistola carica fino alla bocca. Il corpo era tutto un fluire di curve, centomila curve, talora sembrava un pitone, specie quando fasciava quella sua carne con lunghi vestiti aderentissimi e colorati, con spacchi inguinali come spaccature della crosta terrestre, squarci terrificanti che aprivano inferni di delizie, peccati, dannazione eterna. Esibiva un’amoralità ostentata, tutto era malizia in lei, il rimmel a renderle gli occhi ancor più aggressivi, quell’infilarsi le mani fra i capelli come se le stesse infilando nei pantaloni di un uomo, il seno minaccioso, i capezzoli rosei e duri che lasciava ammirare chinandosi appositamente sulla tua scrivania, col pretesto di far domande e ottener risposte, quasi avesse sempre bisogno di metter le tette in chiaro. Non credo fosse un’esibizionista nel senso patologico del termine, o una ninfomane. Sembrava aver bisogno d’imporre il suo potere sessuale sugli uomini, di sedurli, ammansirli, e piegarli alla propria volontà – perché potessero diventare suoi alleati, o comunque non nemici, nell’unica cosa che le interessava: la carriera.
Un giorno, ero arrivato da poco, mi convocò nel suo ufficio. Entrai col mio consueto faccione smargiasso, quello che uso nelle situazioni imbarazzanti. Scintille di lussuria dai suoi occhi, bocca aperta in un sorriso da squalo, biancore e voracità, quando si alzò con lentezza da dietro la scrivania (tlick-tlack, tacchi a spillo, come mi camminasse sul petto) per venirmi incontro (vestito color carne come una seconda pelle) tendermi le braccia (calze carezzevoli come un velo di zucchero) e abbracciarmi. Gli Americani abbracciano ma non baciano, ma lei aveva studiato a Parigi, lasciò indugiare le labbra su una guancia, poi su un’altra, e poi, dopo aver deciso con ammirevole rapidità che non era ancora il caso di baciarmi sulla bocca, depositò le labbra di nuovo sulla prima guancia. Sottobraccio, sussurrò – fruscio di miele che cola dall’alveare – “sediamoci.”
Sentivo il suo seno premere contro il mio petto, strofinarsi. Sentivo il suo corpo bruciare. Sentivo anche un cattivo odore. Perdinci, un odoraccio. L’odore rancido di sudore, infeltrito, sposatosi a litri di profumo da carampana: la danza viziosa di due vecchi afrori, patetici e inquinanti. Ci sedemmo su di un sofà color lampone, e cercai di non respirare. Lei accavallò le gambe, per incatenarmi al bordo velato dell’autoreggente. Era una cosa notevole, lo ammetto, ma difficile da apprezzare in apnea. Disse:
“Che strano modo hai di arricciare il naso. Sembra che chiudi le narici. E sei tutto rosso. Non ti facevo così timido…”
Con una mano mi accarezzò. Credetti di morire: che tanfo! Poi mise la stessa mano sulla mia coscia sinistra.
“Ehm, che dici di aprire la finestra?” proposi.
“Ma c’è l’aria condizionata!”
“Eh sì, ma non mi sento bene, ecco…”
S’alzò, facendo ondeggiare il culo, tanto che mi venne il mal di mare. Poi tornò a sedersi, più mansueta, coprendosi le gambe.
“Scusami, ti ho messo in imbarazzo. Penserai che sono pazza. E in effetti, lo sono.” Rise, di una risata aperta, capo all’indietro, imitazione Marylin.
Chi si definisce pazzo è solitamente la persona più convenzionale del mondo, un florilegio di luoghi comuni, prevedibile fino all’osso:
“È che mi piaci, sai, e quando qualcuno mi piace ho bisogno d’instaurare un contatto fisico.” Di nuovo la mano sulla coscia. Mi fissò, poi riprese:
“Sai quello che mi piace di te?”
“I femori?”
“No, fisicamente gli occhi, certo, ma questo te lo dicono tutti e non voglio adularti.”
“Dire una cosa affermando di non dirla: credo si tratti di preterizione, se La Settimana Enigmistica non mente.”
“Dai, su, indovina.”
“Le mani.”
“Come hai fatto?”
“Eh, chissà. Però sottovaluti i miei stinchi. Posso farti vedere i miei stinchi?”
“Non parli mai seriamente?”
“È contrario al mio codice etico.”
“Ah, sei così positivo!”
“Veramente son depresso tre quarti del tempo.”
“E infatti io l’ho capito subito sai?”
“Che son depresso?”
“Che dietro tutto questo scherzare si nasconde una persona molto profonda.”
“No, guarda, su questo ti sbagli. Sono un superficiale. Sono la persona più superficiale che conosco. Se appena scendo un pelo sotto la superficie mi vien mal di testa.”
(Emanuele Pettener, da Arancio, Priamo/Meligrana, 2014).