Cronaca di un reading un po’ così e di una figura demmerda

Venerdì sera, fine novembre, piove.
Arriviamo dopo una sosta in autogrill dove la barista – bella di una bellezza acerba, bionda senza averne l’aria – ci guarda, ci chiede “artisti?”, e scoppia a ridere con una risata fragorosa che contagia tutti, noi compresi. In compenso, scappiamo senza aver pagato il conto, dicendo che sarebbe passato il nostro manager – lo stesso di Jerry Scotti – a saldare, appena uscito dal bagno.
Piove, e noi facciamo all’autogrill il segno dell’ombrello.

Arriviamo in città all’imbrunire, grazie al navigatore con accento dell’est, come la barista di prima. Decidiamo di parcheggiare nel cortile del locale, pensando che siamo artisti, e gli artisti hanno diritto a un parcheggio gratuito.
Entriamo armi e bagagli, l’accoglienza è da film di Tarantino.
La barista, molto carina, mescola birra chiara e seven up, e ci guarda come se fossimo extraterrestri, ignorando il nostro fascino, manco fossimo Marco Masini.
Beviamo due caffè e due succhi biologici alla mela trentina – dimenticando per un momento che siamo sulla cinquantina -, e ci rilassiamo.
Ci fa pagare le consumazioni, e in quel momento realizzo che gli artisti non intrigano molto le fantasie della barista tutta fossette e denti da pubblicità, e che dipende tutto dal nostro impegno, la serata.

La pioggia continua a cadere imperterrita e il pomeriggio è ormai sera.
Montiamo la strumentazione, e più si va avanti, più è evidente che manca quello che un evento amplificato richiede: abbiamo avuto in dotazione una prolunga e due casse da computer e sbuffi e occhiate e risposte negative a qualsiasi richiesta.
La barista è costantemente al telefono, incazzata con non si sa chi, triste come l’erba di una scarpata ferroviaria, irrorando stanchezza autunnale nell’aria del locale.
Noi procediamo comunque imperterriti, sospinti da un’energia anarchica e veneziana in trasferta montanara: il Reading dell’anarchico Emilio si sarebbe svolto  con o senza mezzi: e questa è una promessa da uomini tutti d’un pezzo!

Procediamo spediti, gli strumenti funzionano, ma senza il microfono, non sappiamo come sarà. Sappiamo invece com’è la sala, carina, in legno, con una buona amplificazione. La gente arriva – non troppa -; scambiamo due chiacchiere e aspettiamo il quarto d’ora accademico: mi preoccupo per la mia voce, che avrebbe bisogno di propoli, che dovrà tener testa a basi elettroniche e chitarra elettrica.

Bon si fa; tra interruzioni varie – “scusi è qui la marmellata di pigne alpine?; mi scuso per l’interruzione ma dovrei prendere un balsamo contro i calli e le doppie punte; è qui il bagno?; chi sono io?; Dio esiste o è un’invenzione dell’uomo? vorrei delle mele secche da spedire via, all’estero… -, viene comunque bene. Spieghiamo chi è Emilio, l’unità d’Italia, l’arresto, i suoi viaggi, la sua inquietudine, l’amicizia con Mark Twain, il movimento delle suffragette, i giornali aperti e chiusi, il suo fine vita da giornalista, il crollo del campanile di San Marco, la grande guerra, la sua eredità morale.
La base musicale è ottima, la mia voce vacilla ma tiene, l’eloquio di Marco eccelle, gli applausi scroscianti, la pioggia che tamburella a ritmo tecno sul tetto della sala.

Dopo gli scambi di prammatica, la promessa di rivederci, abbracci, strette di mano,  decidiamo di andare a mangiare una pizza. La compagnia è: noi quattro (Franco, Marco, Umberto e me), due amici, una coppia di amici di un amico.
Passeggiamo in centro città guardando la bella piazza da sotto i portici anche se la pioggia si è ingentilita. A gruppetti ci si parla, ci si aspetta, ci si rilassa.
In pizzeria si parla di libri, di progetti in divenire, di come in Italia ogni ambiente odori di provincia dell’impero, di come anche quello letterario non fa eccezione: editori, scrittori amici, pacche sulle spalle e recensioni, strizzatine d’occhio e premi vinti, sgambetti e risatine, capriole e talenti mosci.
E qui in provincia della provincia, la provincialità è ancor più evidente, e forse in tal senso più genuina e simpatica.

Usciamo e camminiamo verso le auto.
Ha smesso di piovere e il pavé bagnato da centro storico e il vapore autunnale, rendono l’aria languida e quieta, e gli spiriti e gli stomaci in posizione zen.
I sottoportici, i negozi chiusi, qua e là locandine di eventi sulle colonne di marmo.
Ne inquadro una che mostra un autore molto noto e dico: “ ecco, a proposito di quello di cui si parlava prima: questo è un mona!”.
La voce rimbalza sotto i portici nel silenzio che segue la mia uscita.

La pausa temporale è breve ma l’immobilità la amplifica.

Il mio amico trasferitosi a vivere qui in zona, mi chiede con le pupille dilatate dall’eccitazione: “ chi hai detto scusa? ”.
Gli sguardi dell’allegra e rilassata compagnia oscillano tra me e lui.
“No perché lei – e indica la giovane ragazza che è venuta con noi -, lei è sua figlia!”

Ci sono momenti in cui ci si accorge di aver fatto una figura demmerda.
Momenti in cui ti dici che non può essere che capiti così spesso proprio a te.
Momenti in cui ti dici checcazzo faccio adesso?

Quello che è successo dopo è prevedibile.
Un grande imbarazzo e un altrettanto grande ilarità e incredulità e consapevolezza che, grazie a quattro parole inopportune, si é incisa sulla storia della serata, trasformandola in un aneddoto da raccontare agli amici, come simbolo di una gaffe terrificante.

Mi affanno in mille scuse, e lei, imbarazzata più di me, a dire di non preoccuparmi, che capisce, che sa che quelli famosi pagano sempre un prezzo, che lei non lo vede da tanto, che ha una sua vita, che in parte mi dà ragione.
La sensazione somiglia a un’ubriacatura leggera, a un sottile capogiro.
Mi sento io un mona; un mona che ha detto la sua piccola verità nel momento sbagliato, che è incappato in una situazione statisticamente improbabile, in una figura demmmerda con tre emme.

Ci salutiamo.
Bacio la ragazza chiedendole ancora scusa.
Mi sento male e bene.

Prima di salire in auto mi passa ancora accanto la barista.
Penso che prima avrei dovuto dirle: “Senti, senti io ti vorrei parlare…”, poi prendendo la sua mano sopra al banco: “Non so come cominciare: non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia? Non lasciamo che trabocchi: vieni, andiamo, andiamo via…”

Ma lei non mi vede: parla con un’amica al telefono della schifosa giornata di lavoro.
Metto in moto e parto.

(l’anarchico @Cris)

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