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Categoria: Il Blog di Priamo

Il libro ossessione di Elias Canetti

Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito.
…

Massa e potere è il libro ossessione di Elias Canetti. Un libro difficilmente classificabile riconosciuto tra i capolavori letterari del Novecento che è, insieme, testimonianza e narrazione storica, studio sociologico e saggio antropologico.

Canetti inizia a scriverlo a vent’anni, nel 1925, e lo conclude nel 1960.

Vuole afferrare il Novecento alla gola raccontandolo nei suoi eccessi, tentando di capire di quali sono e come si manifestano le costanti del potere sulla vita umana. Pensa che scriverne non è solo raccontarne le terribili e assurde violenze e sostituisce la storia con il mito perché per lui la storia è un luogo di morte in cui si esplicitano tutti i rituali del potere.

Massa e potere esprimono un dualismo profondo, lo stesso dualismo che si può trovare tra vita e morte: da una parte la massa, cioè la molteplicità, la metamorfosi, la vita e, dall’altra, il potere, cioè l’unità, l’identità, la morte.


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Bus de la Lum

Caro amore,
ti scrivo da questo buco scavato nel bosco  da cui non so se uscirò vivo, e che riesco a sopportare solo grazie al pensiero che, se ce la farò, ritroverò te.
In questo momento sono steso a terra protetto da una sorta di coperchio costruito intrecciando rami d’albero, fogliame e terriccio che servono a mimetizzare il nascondiglio.
La matita con cui ti scrivo l’ho presa alla base operativa, e faccio fatica ad usarla perché la carta è umida, quasi bagnata, e non è facile scrivere senza strapparla.
Ti confesso pieno di vergogna che ho dovuto rubarla perché ci manca proprio tutto quassù: se venissi scoperto sarei di sicuro redarguito con severità dal capo squadriglia che è uomo probo: partigiano buono ma inflessibile.

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C’è la meraviglia

Oggi ho visto Youth, il nuovo film di Sorrentino. Come per altri suoi film, anche questo ha diviso: a onor di cronaca, sono uno di quelli che si schierano a favore: e con Youth, da che parte mi metto?

È presto detto.

Youth è un film di Sorrentino al 100%: vi si individuano i canoni, i tic, i pregi e i difetti; ma se qualcuno si aspetta di incontrare il prosieguo de La grande bellezza, vedrà le proprie attese tradite: questo film è altro.

È un film che ci parla di vecchiaia e di morte, di illusioni, di amore, di disillusioni e disamore e vita. 
Le critiche, quelli che ne sanno, che vedono le trappole semantiche e estetiche ripetono che questo regista è uno che bluffa, che gioca puntando sull’ipertutto: troppa musica – vero -, troppo patinato – vero -, troppo citazionismo – vero -, troppi primi piani – vero -; troppi troppo, vero.


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Diario di un Insegnante d’Italiano ai Tropici (Eleven)

Storia di Ruth

Swinemunde, Germania, 1934. Il signor Hagen, padre della mia amica Ruth, ha un negozio di tessuti e in una mattina piovosa riceve un’insolita visita. Un signore elegante con un cappello di feltro viene a commissionargli un lavoro importante: confezionare uniformi naziste. Purtroppo il signor Hagen deve rifiutare. ”Perché mai?” si stupisce il signore dal cappello di feltro (poiché  l’affare è indubitabilmente buono). Il signor Hagen ha paura, ma mentire può essere ancora più rischioso che dir la verità: “Vede, il mio cognome è Hagen… ma mi chiamo Israel”. Viene arrestato, e rilasciato solo perché accetta di vendere il negozio a un decimo del suo valore. Gli viene inoltre imposto di lasciare la città.
Israel Hagen, con moglie e tre bimbi piccoli, si trasferisce a Stettin. Viene nuovamente arrestato in quanto Ebreo nel 1935. Al momento del rilascio, un poliziotto gli sussurra all’orecchio: “Deve scappare. Dovete scappare tutti voi Ebrei! Noi sappiamo cosa sta succedendo”. Lo sanno, i poliziotti, o lo intuiscono, origliando alle riunioni dei superiori. Israel guarda negli occhi l’uomo e decide che non è il caso di sottovalutare il consiglio, contrariamente alla maggior parte degli Ebrei similmente allertati. Anche i famigliari del padre di Ruth reagiscono con accondiscendenza alla sua preoccupazione: “Suvvia, siamo sopravvissuti ai Pogrom, che c’è di nuovo? Anche questa passerà!” Così Israel, la moglie e i tre figli partono. Saranno gli unici della famiglia a salvarsi.

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L’ultima scena (in tredici brevi atti)

1

È passato del tempo, tanto, troppo, mai abbastanza.

Ricordo ogni particolare, anche i dettagli più stupidi, insignificanti, minimali.

Era settembre, New York fremeva di incantesimi vitali, e sembrava pronta ad abbracciarti.

E noi la lasciavamo fare, ricambiandola.
La giornata iniziava con la luce del mattino che entrava sfacciata dalle finestre, appoggiandosi sui miei occhi stanchi, dopo una notte tormentata. Non capivo il tormento; non ce n’era ragione: eppure c’era, sfidando la logica.

Ero in compagnia della felicità, che dormiva beata accanto a me, con la sua schiena nuda, dopo avermi regalato un’altra giornata di gioia.

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Accanimento informativo

Provocato!
Sono obbligato a parlare di attualità.
Posso chiedere perdono in anticipo? Eh no!! Ricordi il Diavolo a Guido da Montefeltro (Inferno, XXVII, 121-123): «Forse tu non pensavi ch’io loico fossi»?
In verità non chiedo perdono, perché non c’è da essere perdonati; c’è solo un poco di occupazione indebita di attenzione.
Perché il limite è stato passato.

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