Algebra lunare
Osservo il cielo serale dal finestrino dell’autobus. La luna è a mezz’altezza, a circa un’ora dallo zenith. La sua circonferenza è smussata sul bordo in alto a destra in modo leggero ma distintamente percettibile, riempita da un deciso giallo arancio che la fa assomigliare a un melone cui è stata tolta la buccia lasciando la polpa ancora intatta. I suoi crateri, visibili come piccole macchie in ordine sparso, sembrano i semi dei meloni tagliati a metà, quando la polpa si sbriciola facendoli affiorare attraverso le sue crepe. La stessa luce che emana da quella sfera, appesa tra le opache stelle che la circondano, attraversa l’atmosfera e si proietta sul mare che la guarda quasi immobile, come in silenziosa e paziente attesa del suo magnetico sorriso. Dolci e dorate faville giocano a rincorrersi sulla liquida superficie, che increspandosi appena scandisce moti orizzontali che si susseguono con matematica regolarità. Frazioni d’assoluto, sottoinsiemi del perenne moto celeste, derivate dell’energia cosmica. Gli scogli disegnano trattini su quell’infinita pagina argentea, il cui andare a capo è dato solamente dal battito delle ciglia che la osservano. Un gabbiano volteggia solitario per poi planare e appoggiarsi su di una roccia, trovandovi riposo e momentaneo riparo. Il chiarore della luna è abbastanza intenso da poter distinguere in lontananza la sua candida testolina agitarsi con movimenti casuali e convulsi. È anch’essa una piccola sfera, una luna minuscola che riflette la luce ricevuta. A poco a poco quei movimenti si fanno meno agitati e più cadenzati; ecco, ci siamo: ora s’alternano allo stesso ritmo delle onde. L’equazione è risolta. Un improvviso ed energico battito d’ali e il gabbiano s’alza in aria volando sopra il mare, linee parallele verso l’ignoto.
(di Luca Giacomozzi)