Annotazioni da un artigiano della traduzione
1. La “letteratura” italiana contemporanea si è tarpata le ali o, se si preferisce, ha strappato le proprie radici. In altre parole ha, con poche eccezioni, abdicato al problema della forma, con il risultato inevitabile di condannarsi a morte.
“Cos’è accaduto? Perché il romanziere italiano contemporaneo… ha rinunciato alla continuità con se stesso, con la sua stessa letterarietà e i suoi fondamenti? Perché scrive in «una specie di inglese», quello astrattamente parlato in tutti gli aeroporti del mondo?”Giorgio Ficara non è l’unico a porsi il quesito. E non è un problema da poco.
Infatti non si dà stile, senza forma, essendo lo stile, per l’appunto, l’elaborazione originale di una forma.
Eppure l’edificio linguistico non è crollato, il buon italiano è ancora vivo, ad onta del disprezzo mostrato nei suoi confronti da tanti sedicenti scrittori. È merito di valenti giornalisti e, soprattutto, dei traduttori. Infatti, che piaccia o meno, il traduttore letterario svolge oggi in Italia una funzione infralinguistica accanto a quella interlinguistica. Oltre a fare da balia agli scrittori di consumo che adoperano, magari inconsapevolmente, il “traduttese” – ovvero l’italiano neutro ancorché corretto dal punto di vista grammaticale e sintattico, cui si deve ricorrere per volgere nella nostra lingua la prosa dei best selling but bad writing authors (nel campo dei gialli o noir il fenomeno è addirittura esilarante) – il traduttore ha di fatto assunto il ruolo ben più gravoso ed essenziale di custode della tradizione letteraria, così come è andata evolvendo dal Dolce Stil Novo a Gadda.