Un’opera dal fascino ambiguo
Una battuta in discorso diretto introduce la vicenda narrata, ne esprime la forma romanzo e immediatamente dopo si stempera in mille rivoli espressivi, fiumi carsici di flussi di coscienza, di pensieri, emozioni, dubbi; castelli di carta di riflessioni, desideri, paure. E la realtà intorno al mondo interiore dei personaggi – la famiglia in vacanza, la casa, il mare – prende lentamente forma, sfumata come in un sogno, intuitiva come una scenografia in penombra. Gita al faro di Virginia Woolf, pubblicato nel 1927, è un’opera complessa, dal fascino ambiguo, che pur scandita, nel suo farsi, dall’inesorabile scorrere del tempo, sembra sospesa in una sorta di irreale eternità. Il quadro dipinto dalla scrittrice inglese si offre al lettore quasi fosse un’illusione ottica; i riferimenti all’ambiente (a partire dal faro, meta agognata dal più piccolo della famiglia Ramsay, padre, madre e otto figli), essenziali al romanzo, trascolorano nelle anime dei caratteri e lì prendono forma.